ARTÍCULOS
Appunti sulla metafisica nel pensiero medievale: tra Aristotele e Descartes
Notes on metaphysics in medieval thought: between Aristotle and Descartes
Tiziana Suarez-Nani
Tiziana Suarez-Nani es Profesora de filosofia medieval y de ontología en el Departamento de Filosofía, Facultad de Letras, de la Universidad de Friburgo (Suiza). E-mail: tiziana.suarez@unifr.ch
Recibido: 29 de mayo de 2018.
Aceptado para publicación: 20 de junio de 2018.
Resumen
Estos apuntes esbozan tres modelos de la metafísica en la Edad Media: los de Tomás de Aquino, Juan Duns Escoto y Maestro Eckhart. Si bien estos autores comparten la herencia y el imponente marco conceptual de la Metafísica de Aristóteles, sus propias sensibilidades y orientaciones filosóficas los llevan a elaborar tres formas distintas de «metafísica». Tomás de Aquino, apoyándose en la interpretación aristotélica de Avicena, considera la metafísica como una ontología general, la cual engloba una teología natural arraigada en la física y la cosmología. Juan Duns Escoto concibe también la metafísica como una ontología, pero la cimenta en un concepto unívoco del ente y rehúye toda intervención de la física en el conocimiento del primer principio de las cosas. Maestro Eckhart rechaza tanto la mediación de la ontología como de la física en la elaboración de la metafísica, que él concibe como una teología negativa que lo lleva a formular el concepto de Dios como “Uno”. René Descartes opera una síntesis de la tradición filosófica medieval y de su propia visión de la mecánica: para él la metafísica no es ya cima final de la filosofía, sino raíz de todo saber y garantía de la veracidad de la nueva física.
Palabras claves: metafísica medieval, Tomas de Aquino, Duns Escoto, Meister Eckhart.
Abstract
These notes outline three models of metaphysics in the Middle Ages: those of Thomas Aquinas, John Duns Scotus and Master Eckhart. Although these authors share the inheritance and the imposing conceptual framework of Aristotle's Metaphysics, their own sensitivities and philosophical orientations lead them to elaborate three different forms of «metaphysics». Thomas Aquinas, relying on the Aristotelian interpretation of Avicenna, considers metaphysics as a general ontology, which encompasses a natural theology rooted in physics and cosmology. John Duns Scotus also conceives metaphysics as an ontology, but he bases it on a univocal concept of the entity and avoids any intervention of physics in the knowledge of the first principle of things. Master Eckhart rejects both the mediation of ontology and physics in the elaboration of metaphysics, which he conceives as a negative theology that leads him to formulate the concept of God as «One». René Descartes operates a synthesis of the medieval philosophical tradition and his own vision of mechanics: for him metaphysics is no longer the final peak of philosophy, but the root of all knowledge and guarantee of the truth of the new physics.
Keywords: Metaphysics in Medieval Thought, Thomas Aquinas, John Duns Scotus, Meister Eckhart.
Sumario:
1. Il punto di partenza aristotelico
2. Tommaso d’Aquino e la metafisica come onto-teologia
a. Metafisica e felicità dell’uomo
3. Giovanni Duns Scoto e la metafisica come ontologia e scienza trascendente
4. Meister Eckhart et la metafisica come teologia negativa
a. Una metafisica dell’Uno
5. Descartes e la metafisica come radice della filosofia
a. La metafísica: radice della filosofia
6. Conclusione
Gli studi sulla metafisica nel pensiero medievale –siano essi di natura generale o su autori e aspetti particolari– sono numerosi e importanti: si pensi a quelli ormai classici di Etienne Gilson1 e di Albert Zimmermann,2 ma anche ai più recenti lavori di Ludger Honnefelder sulla metafisica di Duns Scoto,3 agli studi di Jean-François Courtine su Francisco Suarez,4 di Alain de Libéra su Alberto Magno5 e di Olivier Boulnois su Duns Scoto e sulle «strutture medievali della metafisica».6 Alain de Libéra ha identificato in particolare «due età» della metafisica medievale: l’età greco-latina, inaugurata da Boezio, e quella arabo-latina, segnata dalla ricezione dei commenti e degli sviluppi arabo-mussulmani prospettati da Al-Farabi, Avicenna, Al-Gazali e Averroè; a queste due «età», De Libéra affianca due orientamenti fondamentali, corrispondenti l’uno alla «metafisica dell’essere», l’altro alla «metafisica dello spirito». Dal canto suo, Olivier Boulnois propone tre figure della metafisica medievale: la «protologia» quale scienza divina del divino, la «katholu-protologia» come scienza dell’essere in quanto universale e in quanto primo, e la «katholu-tinologia», scienza che integra il concetto di Dio in quello di ente. Va senz’altro riconosciuto che questi molteplici tentativi di cogliere la natura della metafisica medievale ne hanno rivelato taluni aspetti, elementi e caratteristiche fondamentali. Cionondomeno la problematica dello statuto di questa disciplina rimane tuttora aperta –e ancor più se si tiene conto di quella che Paul Vignaux, con una formula particolarmente felice, chiamava la «diversità ribelle» del pensiero medievale, che non si lascia facilmente imprigionare in etichette definitive.
Nel breve precorso che proponiamo in queste pagine non entreremo nel merito di queste caratterizzazioni e delle numerose interpretazioni formulate fin qui: lasceremo quindi da parte la ricognizione storiografica, preferendo riandare ad alcuni testi e autori emblematici di tre modi di praticare la metafisica nell’ambito del pensiero medievale: si tratta di Tommaso d’Aquino, Giovanni Duns Scoto e Meister Eckhart, che inquadreremo rispetto alle concezioni di Aristotele –loro punto di partenza imprescindibile– e di Descartes, la cui metafisica può essere considerata, sotto un certo aspetto, come un esito «rovesciato» del pensiero medievale.
1. Il punto di partenza aristotelico
«Tutti gli esseri umani, per natura, desiderano conoscere»: il celebre esordio della Metafisica di Aristotele, che sarà ripreso durante tutto il Medioevo, fa della metafisica quel sapere in grado di soddisfare l’aspirazione più autentica e naturale dell’uomo alla conoscenza. La disciplina metafisica risponde così al bisogno di comprendere la realtà aldilà di ciò che è immediatamente percepibile, cioè «aldilà della fisica»: è questo –come noto– il significato più ampio e generale del termine «metafisica», che si profila così come il sapere più elevato al quale l’essere umano aspira per natura e al quale può giungere mediante le sue capacità naturali.
Al fine di determinare lo statuto della metafisica in quanto disciplina filosofica, Aristotele precisa quali sono i suoi oggetti, prospettando così tre definizioni di questa scienza. A partire dall’idea che la conoscenza scientifica ha per oggetto soltanto le realtà stabili e necessarie, egli identifica tre oggetti conformi a questa esigenza: (1) il primo sono le cause ultime delle cose; posto infatti che conoscere in senso proprio implica conoscere le cause della realtà, tali cause costituiscono il primo oggetto di indagine della metafisica. Se l’analisi fisica dei fenomeni naturali è in grado di identificare le cause della sussistenza e del divenire delle sostanze materiali –che considera in quanto oggetti di percezione–, essa non giunge tuttavia a coglierne le cause ultime; la loro conoscenza è quindi còmpito della metafisica, che si presenta così in primo luogo come «scienza delle cause e dei principi».7 (2) In secondo luogo, tra ciò che è stabile e necessario vi è ciò che accomuna tutte le cose e che è universalmente condiviso: si tratta dell’esistenza o atto di essere. Il concetto di essere è perciò il più fondamentale, comune e universale;8 esso costituisce quindi il secondo oggetto della metafisica, che si presenta allora come «scienza dell’essere in quanto essere», ovvero come «ontologia».9 (3) Infine, tra le realtà necessarie vi sono le sostanze immateriali ed eterne: si tratta delle Intelligenze separate che muovono le sfere celesti e del Primo Motore immobile che muove l’intero universo;10 tali sostanze costituiscono il terzo oggetto della metafisica, che da questo punto di vista si profila come «filosofia prima» e come «teologia filosofica». La metafisica aristotelica si presenta così come la disciplina vòlta a conoscere le realtà più nobili e più universali: per questo essa rappresenta il compimento del sapere cui l’essere umano aspira per natura.
In quanto culmine del sapere e ideale di sapienza, la metafisica ha assunto forme e modalità molto diverse lungo tutto l’arco del pensiero occidentale. Così, un’intento metafisico va riconosciuto, ad esempio, nella «dotta ignoranza» rivendicata da Socrate,11 il quale ravvisava nella consapevolezza dei proprî limiti e nel riconoscimento della propria ignoranza una forma di saggezza superiore. D’altra parte, nell’ambito di una corrente di pensiero quale lo stoicismo, la sapienza non è un fatto puramente conoscitivo, bensì implica un atteggiamento generale del soggetto: in quest’ottica, essa viene allora a coincidere con la ricerca di perfezione e di felicità. Al sapere metafisico in quanto sapienza viene così attribuita anche una valenza esistenziale e pratica, che consiste nell’aiutare l’uomo a vivere in conformità con la virtù: la sapienza indica allora «un’arte di vivere» –come ampiamente illustrato dagli studi di Pierre Hadot.12 Tale dimensione esistenziale è presente anche nella corrente neoplatonica, per la quale il sapere vero si realizza attraverso un percorso ascetico-intellettuale che consente il ritorno al Principio Primo. Sapienza teorica e pratica ad un tempo, durante l’Antichità la metafisica è quindi considerata come il sapere più elevato al quale l’essere umano possa giungere e come ciò che è in grado di soddisfare l’aspirazione più autentica e naturale dell’uomo a vivere in conformità con la sua natura di essere razionale.
2. Tommaso d’Aquino e la metafisica come onto-teologia
Il modo in cui i pensatori del Medioevo latino concepirono la metafisica è largamente debitore della tradizione che li precede, resa nota principalmente attraverso tre testi: (1) la traduzione latina della Metafisica di Aristotele e le interpretazioni che di essa produssero Avicenna e Averroè (la prima traduzione, dall’arabo, risale al 1220, mentre quella dal greco fu realizzata da Guglielmo di Moerbecke verso la metà del XIII secolo). (2) Il Liber de causis: si tratta del ben noto scritto anonimo del IX secolo, redatto verosimilmente da un autore arabo sconosciuto e che offre una compilazione a partire dagli Elementi di teologia di Proclo; per molto tempo questo scritto fu attribuito ad Aristotele e Tommaso d’Aquino fu il primo a comprendere che la sua origine era neoplatonica. (3) La traduzione latina di svariati frammenti di scritti neoplatonici: gli Elementi di teologia di Proclo furono tradotti in latino nel 1268, i Tre opuscoli nel 1280 e attorno al 1286 furono tradotti frammenti dei suoi Commenti al Parmenide e al Timeo di Platone.
Tommaso d’Aquino esamina lo statuto la metafisica nel suo commento allo scritto omonimo di Aristotele, dal quale egli prende ampiamente spunto per elaborare la propria concezione. In merito a questa tematica, l’intento principale di Tommaso è tuttavia di formulare una dottrina in grado di giustificare l’unità della metafisica: soltanto in quanto disciplina unitaria essa potrà infatti svolgere la funzione di regola e di «regina di tutte le scienze». Prendendo in considerazione le tre definizioni aristoteliche –la metafisica come scienza delle cause, come ontologia e come teologia naturale–, Tommaso tenta allora, sulla scìa di Avicenna, di unificarle per farle convergere in un’unica definizione. Posto quindi che l’unità di una disciplina deriva dall’unità del suo oggetto, l’Aquinate va alla ricerca dell’oggetto proprio ed unico della metafisica.
Egli precisa innanzitutto che la metafisica è la scienza più speculativa e più universale, chiamata ad ordinare e a dirigere l’insieme del sapere. Essa è pertanto la scientia maxime intellectualis e il suo oggetto sarà il più universale e il più intelligibile: «maxime intelligibile».13
A partire da tre punti di vista diversi –quello dell’ordine della conoscenza, quello del confronto tra l’intelletto e i sensi e quello della conoscenza intellettuale–, Tommaso identifica tre oggetti maxime intelligibilia: (1) le cause prime; (2) il concetto di ente o di essere (ens), che è il concetto più universale e più intelligibile –in conformità con l’adagio di Avicenna secondo il quale «il primo conosciuto dall’intelletto è l’ente» (primo in intellectu cadit ens); infine, (3) «massimamente intelligibile» è ciò che è separato dalla materia: un’entità è infatti tanto più intelligibile quanto più essa è immateriale, vale a dire quanto più è forma –posto che conoscere significa conoscere la forma delle cose (attraverso le loro forme intelligibili). Ora, l’essere più separato dalla materia è Dio, che è perciò l’oggetto più intelligibile e più conoscibile in se stesso (in seipso), benché non lo sia per noi (quoad nos). In quanto maxime intelligibilia, le cause prime, il concetto di ente, le sostanze separate e Dio appartengono quindi tutti al campo di indagine della metafisica.
Malgrado queste precisazioni, il problema dell’unità di questa scienza rimane tuttavia irrisolto.
Alla ricerca di una soluzione, Tommaso precisa che il compito di una scienza unitaria è di studiare un genere di oggetti e le cause ultime di tale genere; per questo, posto che Dio e le sostanze separate sono le cause ultime dell’essere e del divenire di ogni cosa, egli conclude che l’oggetto proprio della metafisica è il genere supremo, ossia il concetto universale predicabile di tutto ciò che esiste: si tratta quindi del concetto di «ente in quanto ente» (ens in quantum ens), la cui scienza include anche quella delle cause ultime dell’ente. In quest’ordine di idee, la metafisica si presenta allora come un’ontologia, cioè come una dottrina dell’essere che include la conoscenza delle sue cause (scienza delle cause) e quella di Dio in quanto causa prima di ogni cosa; in quest’ottica, la metafisica tomasiana si presenta quindi come un’onto-teologia.14
Con questa concezione, Tommaso d’Aquino si situa nel solco della tradizione peripatetica (in particolare di Avicenna), ma va anche oltre proponendo una visione più coerente e sistematica: applicando rigorosamente il criterio dell’unità dell’oggetto e concependo quest’ultimo come maxime intelligibile, egli riesce infatti a fare della metafisica una scienza unitaria.
In quanto «onto-teologia», la metafisica è la disciplina speculativa superiore a tutte le altre: per questo Tommaso le attribuisce una funzione regolatrice di tutto il sapere, cioè una funzione «architettonica», in quanto essa finalizza l’insieme del sapere alla conoscenza delle realtà superiori e del Principio primo. La conoscenza metafisica si profila così come la finalità e il culmine del sapere umano, ovvero come la «regina di tutte le scienze»: «aliarum scientiarum princeps sive domina».15
a. Metafisica e felicità dell’uomo
Questa concezione è del tutto conforme alla visione tomasiana dell’essere umano e della sua finalità: essere razionale per definizione, il compimento e la perfezione dell’uomo risiedono nella conoscenza intellettuale. In quanto somma perfezione dell’intelletto, il sapere metafisico costituisce la perfezione ultima alla quale l’uomo può aspirare: in esso risiede quindi la finalità dell’esistenza umana. E nella misura in cui questa coincide con la beatitudine, la metafisica rappresenta quella sapienza il cui raggiungimento procura all’uomo la felicità: «la felicità ultima dell’uomo risiede nella sua operazione più alta, che è quella dell’intelletto rispetto all’intelligibile più elevato».16
In conformità con l’ideale aristotelico della vita teoretica –che gli «aristotelici radicali» del XIII secolo hanno ripreso e sviluppato attraverso il motivo della felicità intellettuale–, Tommaso concepisce così la felicità dell’uomo come un’attività intellettuale capace di portare a compimento la sua umanità e di procurargli «la pace dell’anima» –come si legge, ad esempio, in Summa Theologiae Ia-IIae, q. 2, a. 8.
In quest’ottica, la metafisica acquisisce anche una dimensione esistenziale, in quanto essa è capace di soddisfare l’aspirazione naturale dell’uomo verso la perfezione e la felicità: questa risiede nell’unione intellettuale con Dio e si realizza secondo la modalità del «ritorno al Principio primo». Come si diceva, tale ritorno (reditus) costituisce un elemento essenziale della metafisica neoplatonica, per la quale la perfezione di ogni cosa si realizza nella conversione e nel congiungimento con l’«Uno». Appare così come la metafisica di Tommaso d’Aquino, fortemente tributaria di Aristotele e di Avicenna,17 faccia ugualmente spazio all’esigenza neoplatonica dell’unione intellettuale con il Principio primo, laddove questo è identificato con il Dio della Genesi che ha fatto l’uomo a sua immagine e somiglianza.
3. Duns Scoto e la metafisica come ontologia e «scienza trascendente»
Con Giovanni Duns Scoto si assiste ad una svolta decisiva per quanto riguarda lo statuto della metafisica. Scoto distingue infatti il «Dio dei filosofi» dal «Dio dei cristiani», respingendo l’identificazione che Tommaso aveva stabilito tra di loro. Quali sono le ragioni di questa scelta? La prima ci riporta alla condanna del 1277: la censura promulgata a Parigi dal vescovo Etienne Tempier colpiva 219 proposizioni giudicate eretiche, o perlomeno erronee, rispetto alla teologia cristiana. Come noto, la condanna faceva leva sull’onnipotenza divina: in quanto onnipotente, Dio decide e agisce liberamente e non è quindi sottoposto ad alcuna necessità. Ne segue che l’essere umano non è in grado di conoscere le ragioni dell’agire divino –un limite, questo, che compromette notevolmente il valore e la portata della conoscenza metafisica di Dio.
La seconda ragione risiede nell’affermazione del primato della volontà: per Duns Scoto la volontà ha la preminenza sull’intelletto; essa è affrancata da ogni determinazione esterna, mentre l’intelletto sottostà alla determinazione del suo oggetto. Applicata all’agire di Dio, questa tesi implica che Dio agisce liberamente e in maniera del tutto contingente: Duns Scoto oppone così la non-necessità dell’agire del Dio dei cristiani alla necessità dell’agire del Dio dei filosofi –quest’ultimo opera infatti mediante le cause seconde (come, ad esempio, il moto delle sfere celesti), delle quali non può fare a meno.
Questo motivo spinge Duns Scoto a mettere in discussione la capacità del sapere filosofico a conoscere il Dio dei cristiani, posto che l’agire di quest’ultimo sfugge alla logica umana. Da lì l’insistenza sulla necessità della Rivelazione, sola in grado di manifestare all’uomo la sua finalità ultima, cioè quella beatitudine che, in ultima analisi, è un dono di Dio e non una conquista dell’uomo.18
Come suggerito, questa posizione relativizza fortemente la conoscenza filosofica in generale e quella metafisica in particolare, spingendo Duns Scoto a criticare apertamente la concezione della metafisica come teologia filosofica. Egli sostiene infatti che Dio e le sostanze separate non possono essere conosciuti né a priori, attraverso un procedimento deduttivo che a partire dalla nozione dell’essenza divina ne desumesse l’esistenza, né a posteriori, mediante un procedimento induttivo che dalla considerazione degli effetti creati derivasse l’esistenza della loro causa.19
Così stando le cose, ci si può chiedere se la metafisica abbia ancora una ragion di essere e se sia ancora possibile ipotizzare una conoscenza naturale di Dio. Duns Scoto risponde positivamente a tale domanda, mantenendo così aperta la via a una certa conoscenza di Dio, la quale dovrà tuttavia sottostare a determinate condizioni.
Per provare la possibilità di tale conoscenza metafisica di Dio, egli chiarisce dapprima quale sia l’oggetto proprio dell’intelletto umano: se una conoscenza naturale di Dio rimane possibile, essa dovrà infatti essere implicata –cioè «virtualmente contenuta»– nell’oggetto primo e naturale dell’intelletto, cioè in quell’oggetto che l’uomo conosce immediatamente in virtù delle sue capacità naturali. Duns Scoto distingue allora l’ordine genetico –relativo all’origine della conoscenza– e l’ordine di perfezione degli oggetti della conoscenza umana. Secondo l’ordine di perfezione e da un punto di vista assoluto, Dio è l’oggetto intelligibile più perfetto; inversamente, le realtà sensibili sono gli intelligibili più perfetti relativamente alle capacità naturali dell’essere umano. Dal punto di vista genetico, invece, il primo oggetto conosciuto è il concetto più comune e universale, cioè il concetto di ente (ens), che va quindi considerato come il concetto la cui portata è la più estesa e universale.
Sulla scìa di queste considerazioni, Duns Scoto conclude che il concetto più adeguato all’intelletto umano e alle sue capacità naturali è il concetto di ente; ne risulta che tutto ciò che l’essere umano può conoscere è contenuto in questo concetto e compreso attraverso di esso: «ogni intelligibile per se include essenzialmente la ragione di ente o è contenuto in ciò che include essenzialmente la ragione di ente».20
Come noto, il concetto di ente prospettato da Duns Scoto non è un concetto analogo, bensì univoco: ciò significa che il termine «ente» ha sempre lo stesso significato, sia esso predicato di un fiore, di un essere umano, di una scienza o di Dio. Va sottolineato come l’univocità del concetto di ente rivesta la massima importanza nell’ottica di Scoto: essa costituisce infatti la condizione necessaria affinché tale concetto sia veramente universale, cioè predicabile (univocamente) di tutto ciò che esiste.21 E’ quindi in questa accezione che il concetto di ente costituisce l’oggetto primo e naturale dell’intelletto umano: in altre parole, il concetto univoco di ente rappresenta la chiave di accesso a tutti gli oggetti della conoscenza.
Questa posizione ha notevoli conseguenze per quanto riguarda lo statuto della metafisica. Scoto precisa infatti che l’oggetto di questa disciplina deve necessariamente essere l’oggetto primo e naturale dell’intelletto umano. Ne risulta che il compito della metafisica è di studiare il concetto univoco di ente e tutto ciò che esso include; per questo, posto che tale concetto è il più comune e universale, la metafisica sarà la scienza prima e la più universale: «prima scientia scibilis primi».22 La metafisica si profila così come un’ontologia generale. In quanto scienza del concetto di ente, essa è anteriore a tutte le altre scienze, le quali indagano soltanto una porzione particolare dell’ente: è questa anteriorità di natura (e non temporale) che spinge Duns Scoto a considerare la metafisica come una scienza «trascendente» (scientia transcendens).23
In altre parole, la metafisica non è fondata sulla fisica e non ne rappresenta il compimento, ma la precede situandosi su un piano di universalità precluso a tutte le altre discipline, le quali sono necessariamente particolari: «l’ente, in quanto è più comune dell’ente sensibile, è conosciuto per se dal nostro intelletto; nel caso contrario, la metafisica non sarebbe una scienza più trascendente della fisica».24
A conferma del carattere «transcendente» –ovvero, per noi, «trascendentale», cioè a priori– della metafisica, riportiamo un passo significativo dell’Ordinatio, dove si legge che:
L’ente si suddivide in ente infinito e finito prima di suddividersi nelle dieci categorie; uno di questi due, infatti, cioè ‘(l’ente) finito’, è comune alle dieci categorie; per questo, tutto ciò che appartiene all’ente in quanto indifferente all’ente finito e quello infinito o secondo ciò che è proprio all’ente infinito, appartiene all’ente non in quanto determinato rispetto ad un genere o categoria, bensì anteriormente ad essi e, di conseguenza, in quanto è trascendente ed esterno ad ogni genere o categoria.25
Facendo un passo ulteriore, Scoto precisa che la metafisica in quanto ontologia generale ha come oggetto non soltanto l’ente, ma anche le sue proprietà essenziali, cioè le proprietà trascendentali dell’essere che sono l’unità, la verità e la bontà. Queste sono infatti «effetti metafisici» della causa prima che è Dio: attraverso la considerazione di tali proprietà si potrà quindi giungere ad una certa conoscenza di Dio e si potrà affermare, in particolare, che Dio è infinito.26 Secondo Duns Scoto, in quanto ontologia generale e «scienza trascendentale», la metafisica è così in grado di produrre una certa conoscenza di Dio, ovvero una «teologia», seppure indiretta, parziale e imperfetta.27
A questo punto, possiamo osservare come Duns Scoto rafforzi la concezione della metafisica come ontologia. Fondata sul concetto univoco di ente, essa può tuttavia dar luogo unicamente alla conoscenza che tale concetto consente. Ne risulta che la metafisica non sa indicare all’uomo il suo fine ultimo nè dove risieda la sua beatitudine: ed è proprio per questo che l’essere umano ha bisogno della Rivelazione. Contrariamente a Tommaso d’Aquino, per Duns Scoto la metafisica non riveste quindi alcuna dimensione esistenziale, poiché non è in grado di guidare l’essere umano nella ricerca del fine ultimo e della felicità che gli compete.
4. Meister Eckhart e la metafisica come teologia negativa
Per Meister Eckhart la metafisica e la teologia non sono discipline radicalmente distinte: anzi, esse convergono in un intento comune e costituiscono soltanto modi e strumenti diversi per giungere alla medesima verità. Vi è infatti una sola ed unica verità suprema, che coincide con il Principio primo scoperto dai filosofi e con il Dio della Rivelazione cristiana. Posto che il fine dell’esistenza umana è di conoscere Dio e di unirsi a lui, la filosofia è uno strumento valido che aiuta e accompagna l’essere umano in questa sua ricerca.
Meister Eckhart si situa così chiaramente nel solco della tradizione neoplatonica, per la quale la filosofia è un itinerario che consente di fare ritorno all’Uno sul cammino della «conversione» o reditus. Più precisamente –come già per Plotino–, per Eckhart la filosofia è un metodo per scoprire il divino nell’uomo e per accedere a quella forma di divinizzazione che costituisce il fine ultimo degli esseri razionali.
La concezione prospettata dal domenicano tedesco è perciò ben diversa da quelle di Tommaso d’Aquino e di Duns Scoto: per Eckhart la metafisica è principalmente una teologia filosofica al servizio dell’uomo e della sua ricerca dell’Assoluto. A tale scopo, essa non necessita nè della fisica nè dell’ontologia.
Tutto il pensiero di Eckhart si presenta come la risposta al bisogno umano di unione con Dio, ovvero con ciò che egli chiama la «Deità». Tale ricerca avviene nell’interiorità dello spirito, poiché la mente umana –come già scriveva Agostino– è capax Dei; essa è la «casa di Dio» e questi vi è intimior intimo meo. Per trovare Dio, bisognerà quindi seguire il cammino dell’interiorità e dell’abbandono (del mondo e di sè) per giungere a quel «vuoto» o «purezza dello spirito» che provoca la venuta (necessaria) di Dio nell’uomo:
Che il distacco forzi Dio a venire in me, io lo dimostro così: ogni cosa desidera essere nel luogo suo proprio e naturale. Ora il luogo naturale e proprio di Dio è l’unità e la purezza, ed è ciò che il distacco produce (...) Che il distacco non sia aperto che a Dio, io lo dimostro così: ciò che deve essere accolto, deve essere accolto in qualche cosa. Ora il distacco è così vicino al nulla, che nulla è tanto sottile da trovar posto nel distacco, se non Dio solo.28
La dottrina eckhartiana del distacco (Abgeschiedenheit) è correlata a quella dell’umiltà quale condizione della generazione di Dio nell’uomo:
La grandezza di Dio dipende dalla mia umiltà. Più mi umilierò e più Dio sarà elevato (....). L’uomo umile e Dio sono una sola cosa (...) e se l’uomo umile fosse in inferno, Dio dovrebbe recarsi in inferno per andare verso di lui, e l’inferno sarebbe per lui come il regno dei cieli.29
Possiamo considerare tale umiltà e tale vuoto come il versante esistenziale del metodo filosofico che consiste nella negazione. Sempre sulla scìa della tradizione neoplatonica, Eckhart scieglie infatti la via negativa quale sola via percorribile nell’ambito di ogni possibile discorso su Dio: l’equivocità delle affermazioni induce infatti facilmente in errore ed è quindi preferibile enunciare ciò che Dio non è piuttosto che dire ciò che Egli è. Gli enunciati in forma negativa sono perciò più idonei a significare la trascendenza e l’alterità divine. Eckhart sviluppa in tal modo quella tradizione che, risalendo allo Pseudo-Dionigi e passando da Giovanni Scoto Eriugena, era stata ampiamente ripresa e portata avanti, nel corso del XII secolo, da autori come Alano di Lilla o Simone di Tournai.30
Vediamo ora di precisare in che modo Eckhart sviluppa la sua metafisica come «conoscenza negativa» di Dio o «teologia negativa». (I) Una prima tesi enuncia che «Dio non è né ente né essere»: In Deo non est ens nec esse.31 Nella quarta proposizione del Liber de Causis si legge infatti che «l’essere è la prima cosa creata» (Prima rerum creatarum est esse). Riprendendo questo motivo e insistendo sul fatto che le cose esistono soltanto grazie all’essere ricevuto da Dio, Eckhart considera che il termine «essere» o «ente» è sinonimo di «creatura». In quanto causa dell’essere di ogni cosa, Dio è invece anteriore all’ente e all’essere: per dirlo con le parole dello Pseudo-Dionigi, «Dio è aldilà dell’essere».
Eckhart esprime questa stessa convinzione quando scrive che «l’essere non è in Dio se non come nella sua causa; per tale ragione Dio non è l’essere, ma la purezza dell’essere».32 Si capisce così come la metafisica non possa in alcun modo rivestire la forma di un’ontologia e come l’ontologia non possa essere, per Meister Eckhart, che la scienza delle creature.
Essendo oltre o aldilà dell’essere, Dio è un’essenza pura che contiene l’essenza di ogni cosa ancor prima che questa esista come realtà del mondo. Ne risulta che la vera conoscenza delle cose è la conoscenza della loro essenza in quanto presente in Dio: scopo della metafisica sarà quindi di conoscere l’essenza delle cose e di Dio.
Sappiamo tuttavia che tale conoscenza è irraggiungibile, poiché Dio eccede infinitamente le capacità umane. Cionondimeno, rimane per l’uomo la possibilità di avvicinarsi a quanto di divino egli scopre in sè stesso e di giungere, al termine di un percorso che è nel contempo spirituale e intellettuale, all’unione con Dio.
a. Una metafisica dell’Uno
Per cogliere meglio in cosa consista tale possibilità, sarà utile considerare più da vicino il metodo della negazione o via negationis. Malgrado la sua preminenza, la via della negazione non pregiudica infatti ogni possibile conoscenza o discorso sulla realtà divina. Questa rimane certamente inafferrabile quanto alla sua essenza, ma l’essere umano è in grado di coglierne una proprietà essenziale. Un passo del nono Sermone (Quasi stella matutina) lo conferma:
Dei maestri dalla mente rozza dicono che Dio è un essere puro; egli è <invece> così elevato al di sopra dell’essere come il più elevato degli angeli lo è al di sopra di un moscerino. Parlerei tanto falsamente chiamando Dio ‘essere’, quanto se dicessi che il Sole è nero. Dio non è né questo né quello. (…) Quando dico che Dio non è un essere e che è al di sopra dell’essere, non nego che egli abbia l’essere, ma al contrario gli attribuisco un essere più elevato.33
Questo testo conferma quanto radicalmente Eckhart respinga l’approccio ontologico di Dio. Per questo, se rimane pur vero che il linguaggio umano non può fare a meno di parlare di Dio servendosi delle stesse parole di cui si serve per descrivere il mondo, il termine «ente» o «essere» appare del tutto equivoco, erroneo ed inadeguato al discorso sul Principio primo. Ora, in un primo momento, tale inadeguatezza provoca la consapevolezza dell’innominabilità divina e privilegia il silenzio nel rapporto con Dio; cionondimeno, un approccio che consenta di nominarlo attraverso un nome adeguato alla sua perfezione e trascendenza rimane ancora possibile, secondo quanto Eckhart propone e sviluppa nel XV capitolo del Commento al libro dell’Esodo.
Dopo aver esplorato l’innominabilità divina, egli riprende infatti il motivo già citato del Liber de causis per affermare che la dipendenza ontologica delle cose da Dio autorizza la considerazione di quest’ultimo quale causa della totalità dell’essere.
In quest’ottica, Dio appare allora come omninominabile, il che è come dire che Egli può essere nominato attraverso tutte le creature.34 Tale «omni-nominabilità» non cancella tuttavia in alcun modo il fatto che Dio sia superiore e aldilà di ogni possibile discorso: in altre parole, l’«omni-nominabilità» non sostituisce nè annulla la via negationis. Al contrario, la negazione rimane presente in essa, ma viene integrata e assorbita nel modo di significare (modus significandi). Rimane in tal modo aperta la possibilità di un nome divino capace di rispettare nel contempo l’alterità, la purezza, la semplicità, l’infinità, la pienezza e l’unità di Dio.
La ricerca di tale nome non è infatti vana, poiché ne esiste uno che risponde pienamente a questa esigenza. Tutte le perfezioni divine appena elencate convergono infatti in una sola: l’unità. Dio è Uno, egli si costituisce come un’identità perfetta nella quale non vi è differenza alcuna o divisione: Deus unus est.35 Da questo punto di vista, Dio non è soltanto aldilà dell’essere, ma anche aldilà di ogni divisione, differenza e alterità che caratterizzano le creature. Per questo, l’Unità rappresenta l’attributo più adeguato a Dio, posto che nel suo significato sono comprese tutte le altre perfezioni:
Se dico che Dio è buono, ciò gli aggiunge qualcosa, ma ‘Uno’ è la negazione della negazione e la privazione della privazione. Che cosa designa il nome «Uno»? ‘Uno’ designa ciò a cui nulla è aggiunto. (…) Tutte le creature implicano esse stesse una negazione; l’una nega di essere un’altra. Un angelo nega di essere un altro. Ma Dio è una negazione della negazione: Egli è Uno e nega ogni altra cosa, poiché nulla è all’infuori di Dio.36
Il nome «Uno» è quindi superiore a tutti gli altri –una superiorità che è dovuta alla sua capacità di includere la forma più radicale della negazione, cioè la «negazione della negazione».
Questa espressione sta a significare la negazione di tutto ciò che nelle creature è negativo, ovvero la negazione delle loro differenze, dei loro limiti e delle loro imperfezioni. Per questo, in ultima analisi, la negazione della negazione equivale all’affermazione dell’identità e della pienezza divine: «negatio vero negationis purissima et plenissima est affirmatio».37 Il nome «Uno» esprime pertanto la pura positività di Dio che eccede ogni essere e dalla quale ogni essere dipende: è quindi questo il nome più perfetto –ed il solo veramente adeguato– con il quale l’uomo possa designare il Principio Primo.
Queste considerazioni ci consentono di osservare come la metafisica di Eckhart si presenti nel contempo come una teologia negativa e come una metafisica dell’Uno –quella che Alain de Libéra ha chiamato hénologie.38 Eckhart si fà così il portavoce di una metafisica alternativa a quella di Aristotele e dei suoi partigiani– che si tratti di Duns Scoto, di Tommaso d’Aquino o di Avicenna: Eckhart sostituisce infatti la «metafisica dell’essere» con una «metafisica dell’Uno».
5. Descartes e la metafisica come radice della filosofia
Per inquadrare meglio il significato delle concezioni fin qui riassunte, sarà utile fare una breve incursione nel XVII secolo al fine di evidenziare alcuni aspetti della concezione cartesiana della metafisica.
In un contesto ormai profondamente diverso, segnato dalla nuova scienza di Galileo, Descartes vuol dare alla filosofia un inizio e un fondamento radicalmente nuovi. L’esigenza di ricominciare tutto da capo poggia su due ragioni fondamentali: (1) la prima è il fallimento della filosofia scolastica; Descartes critica l’alleanza della scolastica –alla quale egli era stato formato dai gesuiti– con la scienza aristotelica e ne denuncia i risultati confusi, incerti e inaffidabili; da lì la necessità di sottoporre tali risultati al dubbio metodico per poter costruire un sapere certo e indubitabile. (2) La seconda ragione risulta dall’esigenza di scientificità suscitata dal nuovo paradigma del sapere, vale a dire la scienza meccanica fondata sulla matematica.
Seguendo questo paradigma, Descartes vuole dare alla filosofia un fondamento e un metodo nuovi: si tratta in particolare di dare alla ragione nuove regole, cioè dei principii primi chiari e distinti che consentano di trarne deduzioni necessarie. Il modello di tale metodo è la matematica –che comprendeva allora l’aritmetica, la geometria, l’ottica e la meccanica:
La matematica e la geometria sono molto più certe delle altre scienze, perché esse sole trattano di un oggetto sufficientemente puro e semplice da non ammettere assolutamente nulla che l’esperienza non abbia reso incerto, e perché (tali scienze) consistono interamente in una serie di conseguenze dedotte tramite ragionamento. (…) (Non bisogna) –continua Descartes– occuparsi di nessun oggetto del quale non si possa avere una certezza uguale a quella delle dimostrazioni dell’aritmetica e della geometria.39
Malgrado questa valorizzazione della matematica, il progetto di Cartesio rimane pur sempre quello di rifondare, sulla base di una mathesis universalis, il sapere filosofico. Egli lo concepisce come una sapienza globale comprendente tanto la conoscenza speculativa quanto quella pratica necessaria alla buona condotta:
Questa parola, ‘filosofia’, significa lo studio della sapienza e per sapienza non s’intende soltanto la prudenza negli affari, ma una perfetta conoscenza di tutte le cose che l’uomo può sapere, tanto per la certezza della sua vita, quanto per la conservazione della sua salute e per l’invenzione di tutte le arti.40
Sullo sfondo di queste considerazioni, la concezione cartesiana della metafisica risulterà più chiara se ricordiamo dapprima sommariamente alcuni aspetti del suo progetto filosofico. Secondo Descartes, i principi primi evidenti sui quali si fonda la nuova filosofia vanno cercati «dentro di sè». L’esperienza del mondo e la conoscenza che ne traiamo è infatti confusa e piena di incertezze, sicché bisogna «far ritorno su di sè» e cercare la verità in se stessi: «Ma dopo che ebbi impiegato alcuni anni a studiare il libro del mondo e a tentare di acquisire varie esperienze, presi un giorno la risoluzione di studiare pure in me stesso».41
Conosciamo il risultato di questo «ritorno su di sè», da cui è scaturito il «soggetto» moderno: la sola verità che resiste al dubbio metodico è infatti quella dell’esistenza del soggetto pensante (cogito, ergo sum) –una verità così certa, evidente e irremovibile da poter costituire il fondamento unico della nuova filosofia.
Da questa deriva una seconda verità, altrettanto certa e indubitabile, e cioè che il soggetto è una «cosa che pensa» (res cogitans), vale a dire «una mente, un intelletto o una ragione»;42 il pensiero risulta infatti essere il solo attributo indissociabile dall’affermazione dell’ «io pensante».
Per realizzare il progetto di una filosofia davvero nuova, occorre tuttavia che l’evidenza e la certezza di queste verità fondamentali e evidenti caratterizzino anche la conoscenza delle cose del mondo. Nell’ottica cartesiana, questo implica possedere la garanzia della verità del contenuto oggettivo delle idee mediante le quali conosciamo il mondo che ci circonda; in altre parole, bisogna poter essere certi che il contenuto delle nostre idee non è illusorio, ma corrispondente alla realtà delle cose. Ed è qui che interviene la celebre ipotesi del dio ingannatore o «genio maligno» che potrebbe indurre l’uomo in errore senza che questi se ne avveda:
Ogniqualvolta l’opinione concepita poc’anzi della somma potenza di un dio si presenti al mio pensiero, sono costretto ad ammettere che, se lo volesse, gli sarebbe facile fare in modo che mi sbagliassi, persino nelle cose che credo di conoscere con grandissima evidenza.43
Per escludere tale eventualità, bisogna quindi provare che Dio esiste e che non ci inganna. Come noto, attraverso le prove formulate nella terza (prova a posteriori) e nella quinta Meditazione (argomento ontologico), Descartes giunge alla conclusione che Dio esiste, che è un essere perfetto e che «non può essere la causa di alcun errore».44 La prova dell’esistenza e della perfezione di Dio consente così di eliminare ogni dubbio e fonda la certezza della verità delle idee, ivi compresa quella della scienza meccanica:
E così riconosco assai chiaramente che la certezza e la verità di ogni scienza dipendono dalla sola conoscenza del vero Dio: di modo che prima che io lo conoscessi non potevo sapere perfettamente nessun’altra cosa. Ed ora che lo conosco ho lo strumento per acquisire una scienza perfetta riguardo ad un’infinità di cose (…).45
a. La metafisica: radice della filosofia
Possiamo così constatare come gli elementi cardine della metafisica cartesiana (cioè le tesi riguardanti l’anima e Dio) corrispondano a quelli della metafisica classica. Ma se nell’ambito di quest’ultima le verità fondamentali sull’anima e su Dio costituivano il culmine del sapere filosofico, per Descartes esse fanno seguito al bisogno di certezza e si situano su un piano prettamente noetico. Il Dio di Descartes non è la risposta alla ricerca del Principio primo, bensì la risposta all’esigenza di verità e di certezza emersa quale condizione imprescindibile della nuova filosofia: il Dio di Descartes è quindi il principio e il garante della verità filosofica e della conoscenza scientifica.
Se anche per Descartes la filosofia nel suo insieme continua a rappresentare una «sapienza globale», in essa la metafisica svolge ormai una funzione di fondamento, una funzione resa in maniera del tutto limpida attraverso la metafora dell’albero: «La filosofia nel suo insieme è come un albero, le cui radici sono la metafisica, il tronco è la fisica e i rami che fuoriescono dal tronco sono tutte le altre scienze».46
Questa metafora illustra con grande chiarezza l’idea cartesiana della metafisica quale fondamento di tutto il sapere. Essa non è più il termine di una ricerca fondata sull’indagine ontologica o fisica, ma costituisce il punto di avvio delle altre scienze.
Fondamento di tutto il sapere, la metafisica adempie anche il compito di liberare dagli errori e dai dubbî che gravano sulla conoscenza umana. Partendo da questo fondamento metafisico, l’uomo può allora avanzare sicuro sul cammino della scienza, sviluppando una fisica e una meccanica che –come si legge alla fine del Discorso sul metodo–47 faranno di lui «il maestro e il padrone della natura».
6. Conclusione
A conclusione di questo breve percorso possiamo così riassumerne le tappe principali:
Nella tradizione peripatetica medievale, e in Tommaso d’Aquino in particolare, la metafisica si presenta principalmente come ontologia; attraverso l’integrazione della ricerca del Principio primo, essa è tuttavia anche una teologia filosofica che trova il suo punto di appoggio nella fisica. In Tommaso la metafisica è quindi una metà ta physikà che prende la forma di un’«onto-teologia».
Sempre nel solco della concezione aristotelica e avicenniana, Duns Scoto concepisce la metafisica come un’ontologia generale e come «scienza trascendente», respingendo la mediazione della fisica nella conoscenza del primo principio.
Ampiamente ispirato al neoplatonismo, Meister Eckhart elabora una metafisica che si profila come una teologia filosofica al servizio della ricerca umana dell’Assoluto. L’applicazione rigorosa del metodo della negazione modella quindi la metafisica eckhartiana facendone una «teologia negativa» e una «metafisica dell’Uno».
Infine, Descartes rovescia la prospettiva dei suoi predecessori medievali, facendo della metafisica il fondamento o la radice, e non più il compimento, della filosofia. Alle soglie della Modernità, la metafisica svolge così una funzione prettamente epistemologica, dovendo ormai rispondere al bisogno di certezza suscitato dalla scienza meccanica e dal suo modello matematico.
Malgrado le differenze che li separano, per tutti gli autori che abbiamo considerato la metafisica costituisce la pietra d’angolo della filosofia, il sapere più nobile e quello che gode del maggior grado di certezza, quello relativo all’argomento più elevato, più ampio e universale. Da Aristotele a Descartes, passando attraverso la tradizione medievale, la metafisica si presenta sempre e comunque come quella philosophia prima che manifesta al meglio l’aspirazione più autentica dell’uomo. Da questo punto di vista, e in misura maggiore rispetto alle altre discipline filosofiche, essa costituisce una costante, un elemento specifico e qualificante di tutto il pensiero occidentale.
1 Cfr. L’être et l’essence (Paris: Vrin, 1948); Le thomisme (Paris: Vrin, 1972).
2 Cfr. Ontologie oder Metaphysik? Die Diskussion über den Gegenstand der Metaphysik im 13. und 14. Jahrhundert. Texte und Untersuchungen (Leuven: Peeters, 1998).
3 Cfr. L. Honnefelder et al., John Duns Scotus: Metaphysics and Ethics (Leiden - New York: Brill, 1996); L. Honnefelder, Ens inquantum ens: der Begriff des Seienden als solchen als Gegenstand der Metaphysik nach der Lehre des Johannes Duns Scotus (Münster: Aschendorff, 1979).
4 Cfr. Inventio analogiae. Metaphysique et ontothéologie (Paris: Vrin, 2005); e dello stesso autore: Les catégories de l'être: études de philosophie ancienne et médiévale (Paris: PUF, 2003).
5 Cfr. Métaphysique et noétique. Albert le Grand (Paris: Vrin, 2005).
6 Cfr. “Heidegger, l’ontothéologie et les structures médiévales de la métaphysique,” Quaestio (2001): 379-406; Être et représentation: une généalogie de la métaphysique moderne à l'époque de Duns Scot (XIIIe-XIVe siècle) (Paris: PUF, 1999); Métaphysiques rebelles: genèse et structures d'une science au Moyen Âge (Paris: PUF, 2013). Alla metafisica di Giovanni Duns Scoto e alla questione dell’ontoteologia è dedicato un ampio capitolo nello sudio di F. Nef: Qu'est-ce que la métaphysique? (Paris: Gallimard, 2004).
7 Cfr. Metafisica I, c. 1; VI, c. 1.
8 Cfr. Metafisica V, c. 7; VI, c. 2.
9 Cfr. Metafisica IV, c. 1.
10 Cfr. Metafisica VI, c. 1.
11 Cfr. Platone, Apologia 21d.
12 Cfr. Exercices spirituels et philosophie antique (Paris: Vrin, 1981).
13 Cfr. In duodecim libros Metaphysicorum Aristotelis expositio, Prooemium, § 3.
14 Il termine «onto-teologia» va qui inteso nel senso kantiano e non heideggeriano: per Kant l’onto-teologia rappresenta la verità e il compimento della metafisica classica, mentre l’onto-teo-logia quale identificata da Heidegger si riferisce al sistema hegeliano, come giustamente rilevato da O. Boulnois, «Heidegger, l’onto-théologie et les structures médiévales de la métaphysique», 382-383.
15 Cfr. In duodecim libros Metaphysicorum Aristotelis expositio, Prooemium, § 6.
16 Cfr. Super librum De causis expositio, § 1; Summa theologiae Ia-IIae, qq. 1-5 (de beatitudine).
17 Per Avicenna, si veda Metafisica I, c. 1-5.
18 Si noti che con questo motivo Duns Scoto sancisce la fine della «felicità intellettuale» che era stata promossa dagli «aristotelici radicali»: cfr. M. Corti, La felicità mentale. Nuove prospettive per Cavalcanti e Dante (Torino: Einaudi, 1983); L. Bianchi, Censure et liberté intellectuelle à l’Université de Paris (XIIIe-XIVe siècles) (Paris: Les Belles Lettres, 1999).
19 Cfr. Ordinatio I, d. 8, Ia pars, q. 3, § 78 (Opera omnia, vol. IV, 188). Sulla conoscibilità di Dio secondo Duns Scoto rimandiamo a: Ordinatio I, d. 3, q. 3 (Opera omnia, vol. III, 68-123). Sulla teologia filosofica di Scoto rimandiamo allo studio di A.B. Wolter, The philosophical Theology of John Duns Scotus (London: Franciscan Institute Publications, 1990).
20 Cfr. Ordinatio I, d. 3, q. 3, § 137 (Opera omnia, vol. III, 185): «Omne per se intelligibile aut includit essentialiter rationem entis, vel continetur in includente essentialiter rationem entis».
21 Cfr. Ordinatio I, d. 3, q. 3.
22 Cfr. Quaestiones super libros Metaphysicae Aristotelis, 1. VII, q. 4, n. 3.
23 In proposito rimandiamo agli studi di L. Honnefelder, tra i quali segnaliamo: “Der zweite Anfang der Metaphysik,” in Philosophie im Mittelalter. Entwicklungen und Paradigmata, ed. J. P. Beckman et al. (Hamburg: Meiner Verlag, 1987), 165-186; «Scientia transcendens». Die formale Bestimmung der Seindheit und Realität in der Metaphysik des Mittelalters und der Neuzeit (Hamburg: Meiner Verlag, 1990).
24 Cfr. Ordinatio I, d. 3, q. 3, § 118 (Opera omnia, vol. III, 73): «ens autem, ut est communius sensibili, per se intelligitur ab intellectu nostro, alias metaphysica non esset magis scientia transcendens quam physica».
25 Cfr. Ordinatio I, d. 8, p. 1, q. 3, n. 113 (Opera omnia, vol. IV, 205-206): «Ens prius dividitur in infinitum et finitum quam in decem praedicamenta, quia alterum istorum, scilicet ‘finitum’, est commune ad decem genera; ergo quaecumque conveniunt enti ut indifferens ad finitum et infinitum, vel ut est proprium enti infinito, conveniunt sibi non ut determinatur ad genus sed ut prius, et per consequens ut est transcendens et est extra omne genus».
26 Nel trattato De primo principio Duns Scoto formula svariate prove dell’infinità divina. Tra di esse segnaliamo la quarta: «Iuxta hoc propono quartam rationem: Omnis substantia finita est in genere; prima natura non est –ex prima huius; quare, etc. Maior patet, quia in conceptu communi substantiae convenit cum aliis et formaliter distinguitur– patet; ergo distinctivum est idem aliquo modo cum entitate substantiae, non per omnimodam identitatem, quia eorum rationes sunt primo diversae et neutra infinita, ideo neutra omnino includit aliam per identitatem; igitur est unum ex eis sicut ex contrahente et contacto, actu et potentia; igitur genus et differentia; ergo species. Breviter sic arguitur et est idem: (...). Sed nec realitas qua convenit est illa qua differt per identitatem, nisi altera sit infinita; et tunc includens utrumque erit infinitum. Si autem neutra sit altera per identitatem, sequitur compositio. Omne igitur conveniens essentialiter et differens essentialiter aut est compositum ex realitatibus formaliter distinctis aut est infinitum. Omne per se existens convenit sic et differt; quare si est in se omnino simplex, sequitur quod erit etiam infinitum».
27 Cfr. Ordinatio I, d. 3, p. I, q. 1-2, n. 17 (Opera omnia, vol. III, 9-10): « (...) ergo Deus secundum nullum conceptum viatori possibilem est primum subiectum metaphysicae. Item, quidquid probatur de ipso, continetur primo virtualiter in ratione entis (...). Ergo ens primo virtualiter includit hanc ‘aliquod ens est primum’, ergo et ‘si est’ et ‘quid est’; de ista ratione ens primum primo includitur in ente; ergo et quidquid concluditur de ente primo, per rationem huius totius vel per rationem entis. Ergo metaphysica est theologia finaliter et principaliter, quia sicut est principalius de substantia (...) ita principalius de Deo, quia semper prius, ordine perfectionis, includitur in rationi subiecti primi particulariter pars passionis disiunctae quae est simpliciter perfectior». Si vedano in proposito le considerazioni di O. Boulnois, Sur la connaissance de Dieu et l’univocité de l’étant (presentazione e traduzione francese di Ordinatio I, d. 3, Ia parte e Ordinatio I, d. 8, Ia parte) (Paris: PUF, 1988) e di C. Bérubé, “De l’être à Dieu chez Jean Duns Scot,” in Regnum hominis et regnum Dei. Actes du IVe congrès scotiste international, vol. I (Roma, 1978), 47-70.
28 Cfr. Meister Eckhart, Del distacco, trad. Vannini (Firenze: La Nuova Italia, 1982), 108. Tra gli innumerevoli studi su questa tematica eckhartiana segnaliamo il recente articlo di J.-M. Counet, “La morale d’Eckhart,” in Maître Eckhart, ed. J. Casteigt (Paris: Editions du Cerf, 2012), 185-162.
29 Cfr. Sermone XV, trad. Vannini, 222.
30 Cfr. L. Valente, “Deus non est aliquid, ergo nihil est Deus?,” in Il ‘nihil’ nell’Alto Medioevo, ed. P. De Feo, Atti del convegno del 28-29 maggio 2015 (Roma, 2017), 307-334. Sulla teologia negativa in Meister Eckhart rimane fondamentale lo studio di V. Lossky, Connaissance de Dieu et théologie négative chez Maître Eckhart (Paris: Vrin, 1960).
31 Cfr. Quaestio parisiensis“Utrum in Deo sit idem esse et intelligere,” in Magistri Eckhardi Quaestiones et sermo Parisienses, ed. B. Geyer (Köln: Bonnae Sumptibus Petri Hanstein, 1930), 10: «Ex his ostendo, quod in Deo non est ens nec esse, quia nihil est formaliter in causa et causato, si causa sit vera causa. Deus autem est causa omnis esse. Ergo esse formaliter non est in Deo».
32 «In Deo non est esse, sed puritas essendi», ibid., 10.
33 Cfr. Sermone 9, trad. Vannini, 180-181.
34 Expositio libri Exodi, c. XV, § 35 (ed. J. Koch, Meister Eckhart Lateinische Werke, vol. II): «Causa prima superior est omni narratione; (…) causa prima est super omne nomen (…). Notandum autem, quod in De causis dicitur Deus non innarrrabilis sed ‘superior narratione’ (…). Superius enim non est privatum perfectionibus inferiorum, sed omnes praehabet excellentius. ‘Nomen’ ergo ‘quod est super omne nomen’ non est innominabile, sed omninominabile».
35 Cfr. ibid., c. XV, § 57.
36 Cfr. Sermone 21, trad. Vannini, 185-186.
37 Cfr. Expositio libri Exodi, c. XV, § 74.
38 Cfr. Métaphysique et noétique chez Albert le Grand, 352.
39 Cfr. Regulae ad directionem ingenii, II, in René Descartes, Œuvres, ed. Paul Adam et Charles Tannéry (= AT), Vol. X (Paris: Cerf 1897-1913), 365-366.
40 Cfr. Principia philosophiae (Lettera di introduzione), in: AT, vol. IX, 2, 2.
41 Cfr. Discorso sul metodo, I, in: AT, vol. VI, 10.
42 Cfr. Meditationes de prima philosophia II, in: AT, vol. VII, 27.
43 Cfr. Meditationes de prima philosophia, III, in: AT, vol. VII, 36. Sull’ipotesi del Dio ingannatore e la sua fonte in Francisco Suarez rimandiamo a: E. Scribano, Angeli e beati. Modelli di conoscenza da Tommaso a Spinoza (Bari: Laterza, 2006), 175-184 e agli studi ivi indicati.
44 Cfr. Meditationes de prima philosophie, IV, in: AT, vol. VII, 62.
45 Cfr. Meditationes de prima philosophia,V, in: AT, vol. VII, 71.
46 Cfr. Principia philosophiae (Lettera di introduzione), in: AT, vol. IX, 2, 14.
47 Cfr. Discorso sul metodo, VI, in: AT, vol. VI, 62.