ARTÍCULOS
Natura umana e natura dello Stato in Dante: dall’intelletto possibile allo Stato impossibile
Human Nature and Nature of the State in Dante: from the Possibile Intelect to the State Impossibile
Antonio Sparano
Antonio Sparano es Doctor en Filosofía Política por la Università degli Studi di Napoli (Italia) y becario pos-doctoral en la Facultad de Filosofía y Letras de la Universidad de Buenos Aires (UBA). patroclo1981@libero.it
Recibido: 20 de julio de 2017.
Aprobado para su publicación: 25 de septiembre de 2017.
Resumen
Este artículo trata sobre el carácter utópico que presenta La Monarchia de Dante. Específicamente, el tema que se tratará se refiere a los argumentos con los que Dante justificaría la autoridad del Imperio o del Monarca Universal como el único ápice de la jerarquía política, desde cuyo vértice se deriva todo el poder. El autor se enfrenta a una línea interpretativa que considera el pensamiento político de Dante como un sistema sustancialmente realista, considerando especialmente la recuperación de una realidad histórica como la de la Roma imperial. Contra esta posición, el autor muestra que las aspiraciones realistas del pensamiento de Dante fracasan cuando Dante pretende demostrar filosóficamente la necesidad de una Monarquía o Imperio. Con este objetivo, el autor hace una breve síntesis del pensamiento político del florentino en su obra política más grande, La Monarchia, para mostrar que en este tratado existe una imposibilidad radical de reconciliar la evidencia histórica, como resultado del examen de la historia imperial de Roma, con los argumentos filosóficos, resultantes del examen de la naturaleza intelectual propia del hombre.
Palabras clave: Dante, Monarchia, naturaleza, política.
Abstract
This paper deals with the utopian character of Dante's Monarchia. Specifically, the subject to be dealt concerns the arguments with which Dante would justify the authority of the Empire or Universal Monarch like only apex of the political hierarchy from which all power would derive. The author is confronted with an interpretative line that considers Dante's political thought like a substantially realistic system, especially considering its recovery from a historical reality like that of imperial Rome. Against this position the author shows that the realistic aspirations of Dante's thought fail when Dante pretends to demonstrate philosophically the necessity of Monarchia or Empire. With this aim the author makes a short synthesis of the Florentine's political thought in his greatest political work, the Monarchia, to show that in this treatise there is a radical impossibility of reconciling the historical evidence, resulting from the examination of the imperial history of Rome, and the philosophical arguments, resulting from the examination of the intellectual nature of man.
Keywords: Dante, Monarchia, nature, politics.
Sumario:
1. Il fondamento filosofico: la questione dell’intelletto possibile
2. Il passaggio alla politica
3. Dubbi insoluti nell’antropologia politica dell’Alighieri
In questo articolo ribadirò ancora una volta la mia posizione circa il carattere utopistico della Monarchia di Dante, e più in generale di tutto il suo pensiero politico.1 Nello specifico, il tema trattato riguarderà gli argomenti con cui il Fiorentino tenterebbe di giustificare il bisogno dell’autorità di un unico Imperatore, o Monarca Universale, quale vertice della gerarchia politica dal quale deriverebbe ogni il potere. Tenterò, cioè, di porre in evidenza un’incompatibilità irrisolvibile tra la sua descrizione storica (e quindi realistica) della Roma imperiale e l’interpretazione filosofica che il Poeta propone di essa alla luce della sua dottrina dell’intelletto possibile.2
In effetti, il Fiorentino, per descrivere la migliore organizzazione del mondo, propone come esempio storico, l’Impero Romano dell’epoca di Augusto, che, secondo la sua impostazione, giustificherebbe la sua concezione filosofica dell’Imperatore (o Monarca Universale) come vertice necessario di una globale gerarchia politica.
Mio obiettivo sarà quello di mostrare che tale impostazione del discorso politico del Fiorentino è di difficile risoluzione, dal momento che le sue aspirazioni realistiche, a mio avviso, crollano dinanzi alle sue pretese di dimostrare filosoficamente la necessità della Monarchia Universale.
A tale scopo eseguirò, perciò, una breve, ma approfondita, indagine del pensiero politico del Poeta attraverso la sua maggiore opera politica, la Monarchia, ma non solo, al fine di dimostrare che la sua concezione della politica non può essere realistica, perché fondata su una interpretazione utopistica della natura intellettuale dell’uomo.
1. Il fondamento filosofico: la questione dell’intelletto possibile
È doveroso dire, fin da subito, che l’ideale dell’impero universale poche volte è stato formulato con tale lucidità di visione politica e perfezione letteraria, come nel caso del poeta fiorentino. Questa specificità e originalità del suo pensiero politico si riscontrano esplicitamente e in maniera, potremmo dire, schematica, soprattutto nella Monarchia; ma, in realtà, è tutta la produzione letteraria matura, dal Convivio alla Commedia, ad essere attraversata da interessi politici. In essa è possibile riscontrare due fondamentali interrogativi ereditati dalla tradizione filosofica: la questione intorno alla definizione di animal politicum, da un lato; quella relativa all’origine dell’intelletto (soprattutto dopo il commento di Averroè al De anima aristotelico), dall’altro. Entrambi questi temi, infatti, si uniscono nella sua intera opera per dar vita ad una dottrina politica inedita. «Lo fondamento radicale de la imperiale maiestade, — dice Dante nel Convivio — secondo lo vero, è la necessità de la umana civilitade, che ad uno fine è ordinata, cioè a vita felice; a la quale nullo è per se sufficiente a venire senza l’aiutorio di alcuno, con ciò sia cosa che l’uomo abbisogna di molte cose, a le quali uno solo satisfare non può».3 Nel affermare la legittimità del potere universale dell’Imperatore, Dante riprende qui le pagine della Politica di Aristotele in cui, appunto, il filosofo greco spiega perché l’uomo è un animale politico (un compagnevole animale): l’essere umano ha per natura caratteristiche tali che non riesce, da solo, a procurarsi tutto ciò di cui ha bisogno per garantirsi una vita degna di essere vissuta, e, pertanto, avverte l’ineliminabile necessita di associarsi con altri uomini. E come lo Stagirita, anche il Poeta distingue per complessità crescenti, ovvero in base allo loro capacità di appagare i bisogni umani, differenti forme di società: la famiglia, la cittade, il regno, la Monarchia (Universale).4
Tutte le forme di società tendono necessariamente a sfociare nella Monarchia in quanto permette di realizzare appieno tutte le possibilità umane.5 Ma per l’Alighieri la comunità politica (anche la Monarchia Universale) non risponde soltanto ad una necessità biologica, economica ed etica: per lui il fine naturale dell’uomo è il conseguimento di quella perfezione di cui è naturalmente capace, o, come dice egli stesso, «quando [l’uomo] tocca o aggiugne la sua virtude propria».6 Virtù propria dell’uomo è la ragione (intellectus): è nel pieno sviluppo della sua capacità intellettuale e nella contemplazione del vero, alla quale è ordinata tutta la sua vita attiva e pratica, che consiste la perfezione a cui l’uomo aspira per natura.7 Ecco emergere qui l’altro tema che ha ispirato tutta la sua dottrina politica, e che il Poeta ha ereditato dalla tradizione filosofica classica e medievale: il dibattito millenario intorno all’intelletto possibile. A questo punto, però, per cogliere a pieno la novità costituita dalla dottrina politica di Dante, che pure ad esso si ispira, è necessario ricordare, se pur brevemente, i momenti salienti e il fulcro intorno a cui ruotava il suddetto dibattito.
Il terzo libro del trattato aristotelico del De Anima è annoverato tra i testi filosofici più difficili che l’Occidente latino abbia mai conosciuto: soprattutto nei capitoli dal IV al VIII nei quali lo Stagirita cerca di spiegare la natura dell’intelletto umano. Qui Aristotele non solo afferma che lo strumento con il quale l’anima pensa è non commisto, impassibile e separato, ma nel capitolo V, applicando alla conoscenza la dottrina fisica della potenza e dell’atto, aggiunge che esiste un intelletto capace di divenire ogni cosa, e un altro intelletto capace di produrre ogni cosa. I commentatori greci di Aristotele, ma soprattutto gli interlocutori arabi, si sono interrogati assiduamente su tale distinzione. A partire da Alessandro d’ Afrodisia si ammette in generale che l’intelletto, in quanto capace di produrre ogni cosa, e per questo chiamato intelligentia agens, debba essere, come sostanza trascendente, diversa dell’uomo. Questa interpretazione presuppone che la conoscenza per astrazione dal sensibile e per universalizzazione sia opera di una sostanza incorruttibile, diversa dall’individuo concreto. Ciò poneva il problema di come spiegare la conoscenza umana. Il commento di Averroè al De Anima rappresenta un passo decisivo in tal senso: egli tenta di dimostrare che anche l’intelletto capace di divenire ogni cosa, l’ intellectus possibilis, è una sostanza separata, immateriale e eterna, ma, soprattutto: comune a tutti gli uomini. Secondo lo schema elaborato da Averroè, l’anima umana è costituita da materia e forma: la forma è data dalla ragione, che a sua volta si divide in ragione pratica e ragione teoretica, e viene definita dal filosofo arabo, appunto, intellectus possibilis. L’ Intelligenza, che è unica ed eterna, ha creato il prodotto che si presenta davanti all’intelligenza umana (all’intelletto possibile), e per questo è definita intelletto agente.8 La percezione dei sensi fornisce alla ragione pratica le immagini del mondo da cui formare i contenuti; successivamente, la ragione teoretica elabora queste immagini per dare forma a idee universali e astratte. L’ intelletto possibile viene dunque illuminato,9 nella sua attività razionale, dall’intelletto agente; e può cogliere così le forme intellegibili. Immortale non è l’anima umana, ma la sua forma, cioè l’intelletto possibile, che è unico per tutta la specie umana e si individualizza nell’unione con la materia. Ma la tesi del quod sit unus intellectus omnium hominum si scontrava inevitabilmente con la teologia cristiana. Tommaso d’Aquino cercò di confutare il filosofema dell’intelletto unico, che, come visto, metteva a repentaglio il dogma cristiano dell’immortalità dell’anima, basandosi sull'esperienza secondo la quale hic homo intellegit: è «questo individuo particolare che conosce». Secondo Tommaso, l’esperienza si può spiegare solo se l’intelletto, per mezzo del quale l’uomo conosce, è legato in qualche modo al suo corpo, al quale dà la sua forma sostanziale. Chiarito ciò, anche per Tommaso, come per i predecessori arabi, i vari tipi di intelletto formano una gerarchia in cima alla quale si trova l’intelletto divino: rispetto all’essere in generale, considerato quale oggetto dell’intelletto, l’intelletto divino si comporta come atto puro; il che vuol dire che la totalità dell’essere esiste in lui in modo originale e perfettamente intellegibile.10 L’intelletto umano si trova all’estremità opposta di questa scala: l’uomo, – sostiene l’Aquinate – il più modesto degli esseri dotati di conoscenza, possiede la facoltà di conoscere tutto, capacità che egli deve però attualizzare;11 ma questo implica, secondo il teologo, che nessun individuo può giungere all’attuazione perfetta di questa potenza passiva nel corso della sua esistenza temporale. Solo nella visio beatifica l’uomo potrà ottenere, attraverso la contemplazione dell’essenza divina, una felicità a misura della propria natura razionale, poiché la perfezione di una potenza «consiste nel raggiungere ciò che realizza appieno la ragione del suo oggetto».12 Ora, poiché l’oggetto dell’intelletto è l’essenza di una cosa, il desiderio dell’uomo non sarà appagato (e dunque egli non sarà felice) finché non conoscerà l’essenza divina, che è la causa dell’essere universale (ens universale), al quale l’intelletto si riferisce per natura.13 L’Aquinate, in un certo senso, utilizza Aristotele per poi dimenticarlo e ritornare alla tradizione patristica: con lui, il fine naturale (aristotelico) si confonde col fine soprannaturale, e l’uomo non può appagare il suo innato desiderio di sapere,14 e quindi essere felice se non nell’altra vita, quando contemplerà Dio faccia a faccia. Di qui la conclusione teologica a cui giunge il De regimine principum: «non è adunque fine ultimo della congregata moltitudine di viver secondo virtù, ma di ascendere, mediante la virtuosa vita, alla divina fruizione».15 Di qui, infine, le sue conclusioni politiche: 1) la funzione ausiliaria dei sovrani temporali, dal momento che, «se il fine della vita presente è di conseguire la celeste beatitudine, dovere dei re è di procurare in tal guisa la retta vita della moltitudine»;16 2) quindi la loro subordinazione alla classe sacerdotale, in primis al Papa. Infatti, continua Tommaso, «quale sia la vera via che conduca alla beatitudine e quale sian gli impedimenti si conosce dalla legge divina, la cui dottrina e cognizione appartiene all’ufficio dei sacerdoti»;17 per questo è nella legge di Cristo che i re debbono essere soggetti ai sacerdoti.
Anche Dante è consapevole della natura eretica della dottrina averroista dell’unità dell’intelletto possibile, che infatti rigetta esplicitamente nella Commedia18 ed implicitamente nel Convivio19. Per lui, come per Tommaso d’Aquino, l’intelletto possibile è parte dell’anima che è forma del corpo umano, e quindi non è unico, ma moltiplicato e numerato secondo il numero degli individui umani: l’intelletto umano non è unico per tutti gli uomini, ma ogni uomo riceve il proprio intelletto possibile, creato dalla Prima Intelligenza o Primo Motore del cielo, che è Dio. Senonché l’intelletto possibile, nell’unirsi all’anima vegetativo-sensitiva, ne subisce le condizioni individuali;20 e a seconda di queste disposizioni «più pura [o meno pura] anima si produce».21 Tuttavia, continua l’Alighieri, nessuno dei singoli individui umani potrebbe mai da sé attuare tutta la capacità dell’intelletto (quella capacità, secondo il concetto di Aristotele, di «divenire tutte le cose»).22 Da qui, dunque, la necessità di ottenere per mezzo della intera specie umana la completa (e naturale) attuazione dell’intelletto possibile.23
2. Il passaggio alla politica
Ma oltre a questa sorta di compromesso, relativo all’ambito metafisico e della teoria della conoscenza, tra la dottrina teologica corrente (in particolare quella tomista) e motivi prettamente averroistici, la tesi dellacompletaattuazione dell’intelletto nell’unicità della specie umana è fondamentale perché offre al Poeta un principio razionale su cui fondare la necessità di un’unica comunità politica garante dell’ordine e della pace universali.
Tali intuizioni, esposte in modo sintetico nel Convivio, vengono elaborate ed approfondite nella Monarchia, opera incentrata, appunto, sul tema della comunità politica universale e della gestione del potere a suo interno: qui Dante propone un’interpretazione del tutto originale della suddetta questione; originalità della quale è pienamente consapevole. Fin da subito, infatti, l’autore si vanta di rivelare verità che sino ad allora nessuno aveva inteso: «desidero et intemptatas ab aliis ostendere veritates».24 L’osservazione in questione riguarda le risposte che si accinge a dare alle tre questioni politiche affrontate nel trattato: «in primo luogo infatti si pone il problema e ci si chiede se la Monarchia sia necessaria al benessere del mondo; in secondo luogo se il Popolo Romano si sia attribuito di diritto il ruolo di Monarca; e in terzo luogo se l’autorità del Monarca dipenda direttamente da Dio, oppure da un altro, ministro o vicario di Dio».25 Prima però di intraprendere la ricerca delle soluzioni a tali interrogativi, Dante espone quello che, a suo parere, è il solo principio che consenta di trovare le opportune risposte: «ma poiché – egli dice – ogni verità che non è fondata in se stessa si chiarisce grazie alla veritàdi un fondamento logico, è necessario in ogni indagine avere conoscenza del fondamentoa cui ricorrere per via analitica al fine di stabilire con certezza tutte le proposizioni che ne conseguono».26 Ma nel campo della politica è il fine ad agire come principio,27 per cui l’inchiesta filosofica deve cominciare con un interrogativo sul genereumano: «se dunque esiste un fine naturale dell’intera società umana, sarà questo il fondamentocol quale saranno chiarite a sufficienza tutte le verità che bisogna in seguito provare: perché sarebbe pazzesco credere che esista il fine di una società e di un’altra, e che non esista un unicofine valido per tutte».28 Segue, quindi, la dimostrazione che: esiste un fine universale del genere umano, che tale fine deve consistere in un’attività, e il senso di questa attività.
Il capitolo terzo del primo libro, tra i più originali dell’opera, si basa su tre ragionamenti, la cui analisi consente di misurare sino a che punto Dante dipenda da Aristotele; ma anche in che modo, nell’ambito della tradizione aristotelica, si spinga al di là di essa. Il primo dei tre si fonda sull’analogia tra le finalità delle differenti parti del corpo umano (dita, mano, braccio, ecc.) e del medesimo considerato nella sua interezza, e quelle dei differenti segmenti di un regno (individuo, focolare domestico, villaggio, città, ecc.) e dello stesso regno. La doppia gerarchia dei fini è chiaramente aristotelica, ma se per il filosofo greco già nella πόλις la comunità umana realizza il suo scopo ultimo, Dante non solo alla lista vi aggiunge il regno (regnum), ma precisa che è il genere umano nel suo insieme ad avere un optimum finis.29 Il secondo ragionamento verte sul fondamentale principio aristotelico, secondo cui la natura non fa nulla di invano, «ma ogni cosa nasce in vista di una attività. Non è infatti l’essenza creata il fine ultimo nell’intenzione del creatore, in quanto creatore, ma l’attività propria dell’essenza: quindi l’attività propria non ha la sua ragion d’essere dall’Essenza, ma questa da quella».30
Partendo da tale presupposto, Dante ne deduce un principio ontologico proprio dell’uomo, vale a dire: la sua attività specifica. Quest’ultima, a sua volta, è oggetto del terzo ragionamento. Qui, l’Alighieri confronta l’uomo con ciò che gli è inferiore: «non è facoltà ultima nell'uomo l’essere stesso considerato come indeterminato, perché come tale è comune ad ogni elemento; né l’essere composto, perché questo si ritrova anche nei minerali; né l’essere animato, perché così è anche nelle piante; né l’essere capace di apprendere, perché di ciò partecipano anche i bruti; ma l’essere capace di apprendere per mezzo dell'intelletto possibile».31 Dante, però, subito chiarisce che tale peculiarità dell’uomo deve essere distinta da quella propria a ciò che è superiore all'uomo, vale a dire dalle sostanze separate, «il cui intelligere è in atto e mai in potenza, e in modo che è proprio solo di quelle, giacché in loro essere e pensiero coincidono».32 Qui, Dante sembra intendere l’intellectus possibilis alla maniera di Tommaso d'Aquino, il quale vi scorgeva una vis passiva respectu totius entis universalis; però se ne allontana quando aggiunge che: questa possibilità non può essere realizzata né da un uomo singolo, né da una comunità come la casa, il villaggio, la città o regno particolare.33 Ma, soprattutto, l’Alighieri confuta la soluzione (per così dire: escatologica) dell’Aquinate, secondo cui il desiderio infinito di conoscere sarà compiuto solo dopo la morte e con l'aiuto di Dio (ovvero solo nella visio beatifica). Per Dante, l’umanità, giànella sua esistenza temporale, può portare a termine questo compito, ma solo se intesa nella sua interezza, ovvero, come umanità presa nel suo insieme. E per dimostrarlo si avvale di un'idea ricorrente nella filosofia aristotelica della natura, secondo la quale nel mondo sublunare non è l’individuo, ma il genere ciò che può raggiungere la perfezione: il genere compensa le mancanze dell’individuo.34 In questo capitolo, dunque, il Poeta, in poche righe, propone, allargandone l’orizzonte, una nuova interpretazione della teoria aristotelica dell’intelletto: egli non parla dell’intelletto individuale di Tommaso e della maggior parte dei filosofi latini, ma pensa ad un intelletto collettivo per tutti gli uomini. Inoltre, l’aver concepito la conoscenza come un compito collettivo dell’umanità, ha rivelato la dimensione politica di tale intelletto: se alla piena attuazione dell’intelletto non può giungere il singolo da se, ma solo per mezzo della comunione con gli altri uomini, ciò significa che egli (il singolo) è naturalmente parte di un tutto da cui non può essere avulso, ossia: della humana civilitas. Quest’ultima forma per se stessa un’unità naturale inscindibile, determinata a sua volta dall’unico fine di tutti gli uomini. Questo passo, quindi, offre anche un’interpretazione del tutto originale della teoria aristotelica dell’uomo quale animale politico: per Dante, ed ora è chiaro, lo scopo comune a tutti gli uomini, quello per il quale si riuniscono naturalmente in una comunità politica, è la conoscenza.
Da qui, la sua risposta al primo dei tre interrogativi posti all’inizio dell’opera: per il Poeta, la communitas politica che può garantire il raggiungimento di tale fine, non è, né, come sostiene Aristotele, la civitas (la πόλις), né, come in parte sostiene Tommaso, il regnum. Lo Stato per eccellenza, lo Stato nel senso pieno del termine, quello assolutamente autarchico, non può che essere l’Impero, in quanto il suo fine e fondamento naturale coincide esattamente col fine naturale della humana civilitas. Tutto il restante primo libro della Monarchia è una lucida dimostrazione, a partire dalle suddette premesse, della «necessità dell’Impero universale»: il fine naturale dell’umanità è la perfetta esplicazione della virtù propria dell’uomo, la «virtù intellettiva»,35 che può rendere possibile attuare la felicità sulla terra. L’umanità può realizzare tale fine collettivo (finis totius humane civilitatis)36 solo nella vita associativa, cioè organizzata politicamente. Le condizioni ed i mezzi per realizzare tale fine sono la pace,37 la giustizia38 e la libertà,39 eliminando ogni guerra, ogni litigio, ogni cupidigia. È necessario dunque una forma di governo che possa garantire tutto questo: possa rendere praticabile la realizzazione del fine naturale dell’uomo, la felicità terrena. Questa forma di governo è la Monarchia Universale: un istituto politico capace, per la sua stessa struttura unitaria e universale, di garantire pace, perché non condizionata da interessi territoriali o cupidigia di beni,40 come lo sono non solo le città, ma anche i principati e i regni; giustizia, perché idonea ad elaborare principi teorici generali di diritto;41 e libertà, perché in essa il genere umano «dipende totalmente da se e non da altri».42 In questi termini si articola, dunque, la risposta di Dante: per il Fiorentino, le minori comunità politiche, la città e il regno, convergono e sboccano naturalmente nell’unità organica dell'Impero, perché esso, moderando i rapporti fra le città e i regni, inaugura sulla terra quella pace universale, che assicura la concordia di tutte le genti nella intima cooperazione per il raggiungimento dell’unico fine dell’humana civilitas, garantendo a questa la sua unità formante un tutto organico inscindibile.
Il secondo libro affronta la questione della legittimità dell’Impero Romano: sebbene costituisca la parte meno originale del pensiero politico dell’Alighieri, in quanto molte delle sue tesi fanno capo, appunto, alla grande tradizione letteraria filo-romana, esso è ugualmente rilevante all’interno del quadro più generale dell’opera, perché alcuni suoi temi fanno da premessa alla terza ed ultima parte. L’Impero Romano – sostiene Dante all'inizio del secondo libro – è stato voluto dalla Provvidenza Divina.43 Il Poeta prende dunque le mosse da un presupposto teologico; ma lo fa per dimostrare come lo ius divinum e lo ius naturale, su cui si fonde tale legittimazione, coincidono. Ed infatti, il potere imperiale – continua l’autore – è stato assunto di diritto (de iure)44 dal popolo Romano, poiché, come la sua storia dimostra, fu il più nobile (nobilissimum)45 e soprattutto poiché perseguì il fine del diritto (finem iuris),46 che è il fine naturale da Dio posto in tutte le cose.47
Una volta poste le basi di tale distinzione su presupposti storico-giuridici, Dante può dunque passare ad affrontare la terza ed ultima questione: l’indipendenza o meno dell’Impero (e più in generale del potere temporale) dalla Chiesa (dal potere spirituale). Egli sostiene che l’uomo non ha solo un fine naturale, ma anche un fine soprannaturale, il quale è fondamento di quell’altra istituzione sociale che è la Chiesa. È necessario, perciò, domandarsi se, per caso, l’autarchia dell’Impero non sia in qualche modo limitata dal potere ecclesiastico? Si tratta di uno dei passaggi più innovativi della posizione politica di Dante, dove il suo pensiero si fa veramente ardito e originale. Ma analizziamo più nel dettaglio come l’Alighieri procede nel suo ragionamento:
Se dunque l’uomo rappresenta il termine medio fra le cose corruttibili e quelle incorruttibili, dal momento che ogni termine medio partecipa della natura degli estremi, è necessario che l’uomo partecipi della natura di entrambe. E poiché ogni natura è ordinata ad un fine ultimo, ne consegue che esiste un duplice fine dell’uomo: infatti essendo fra tutti gli esseri il solo che partecipa della incorruttibilità e della corruttibilità, così è il solo fra tutti gli esseri che sia ordinato a due fini, il primo dei quali è il suo fine in quanto corruttibile, il secondo in quanto è incorruttibile. Due sono pertanto i fini che l’ineffabile Provvidenza ha indicato a l’uomo come meta: cioè la felicità di questa vita, che consiste nell’operazione della propria virtù ed è figurata dal paradiso terrestre, e la felicità della vita eterna, che consiste nel godimento della visione di Dio, a cui non si può giungere senza l’aiuto della luce divina, e che noi intendiamo come paradiso celeste.48
Per Dante, come si può vede anche da questo passo, la distinzione del duplice fine non riguarda, come per Tommaso, soltanto una condizione/concessione fatta all’uomo dopo il peccato; essa tocca la natura umana fin dal primo disegno della Divina Provvidenza: quest’ultima aveva assegnato all’uomo, fin dall’Eden, (quindi: già nell’Eden) la piena felicità naturale da conseguirsi per mezzo dell’operatio proprie virtutis;49 e, in più, l'aveva destinato alla felicità soprannaturale, alla quale però egli sarebbe giunto solo con l’aiuto divino, per mezzo della visione beatifica di Dio. Al raggiungimento del fine naturale, l’uomo sarebbe pervenuto, dunque, prima del peccato, convivendo in comunione con gli altri uomini; dopo il peccato, invece, (e la conseguente cacciata dall’Eden) vi giunge per mezzo dello Stato, che assicura la tranquillità dei rapporti sociali. Non vi è dubbio che l’Alighieri, come spesso sottolineato,50 si sia ispirato pure a Tommaso per quanto concerne la dottrina dei due fini, ma quest’ultimo svalutava il fine naturale. Sebbene l’Aquinate abbia accennato più volte alla distinzione tra fine naturale dell’uomo e fine sovrannaturale, dichiara che la felicità di questa vita (il fine naturale, appunto) è una felicità imperfetta, ed è casomai una preparazione alla vera e perfetta felicità.51 Per Tommaso, anche se naturale il desiderio della felicità, non puòessere soddisfatto naturalmente: a concretizzare questo naturale desiderio, la mente creata può giungervi soltanto con l’aiuto della grazia. Secondo Dante, invece, il fine naturale è veramente autonomo da quello soprannaturale: esso può e deve essere raggiunto in questa vita mediante i documenta phylosophica.52 Anzi, in un certo senso, per il Poeta, il fine naturaleè stato già raggiunto, poiché la ragione umana è già tutta spiegata nei libri dei filosofi, soprattutto in quelli di Aristotele che, «per lo regno quasi divino che la natura in lui messo avea», limò e ridusse a perfezione la morale filosofica, ossia la ricerca del fine de la vita umana, «che ciascuno disia naturalmente».53 Ma, sebbene la ragione umana sia tutta spiegata nei libri dei filosofi, non può comunque dirsi che la gran parte degli uomini abbia raggiunto il più alto grado di perfezione intellettuale a cui ciascuno di essi aspira per natura. Anzi, dopo il peccato, la maggioranza ne è impedita da molteplici ostacoli e difetti dell’anima e del corpo. Per vincere tali ostacoli fu perciò necessario fondare lo Stato (l’umana convivenza): che supplì, appunto, ai difetti dell’uomo. E per Stato Dante intende l’Impero, la Monarchia Universale, la quale è la sola che, debellando la cupidigia umana e l’egoismo delle città e dei regni, che minacciano costantemente il vincolo dell’humana civilitas, fa sì che tutti, in armonica e pacificacollaborazione, siano messi in grado di aspirare al sommo grado di perfezione naturale.
Da tale autonomia del fine naturale dell’uomo rispetto a quello sovrannaturale, Dante può quindi dedurre l’autonomia e l’indipendenza del potere civile di fronte a quello ecclesiastico: se diversisono i due fini, diversesono le guide che ad essi conducono. L’umanità, spogliata a causa del peccato dei doni soprannaturali, e guasta nella sua natura, ha avuto bisogno — sostiene l’Alighieri — della Chiesa e dell’Impero: della Chiesa, depositaria della rivelazione di Cristo, per essere restituita allo stato di grazia ed al fine soprannaturale; dell’Impero, per rimediare alle deficienze della natura corrotta, onde l’uomo potesse raggiungere il suo fine naturale in questa vita. Il Vicario di Cristo (il Papa) guida gli uomini alla beatitudine celeste «per documenta spiritualia, que humanam rationem trascendunt»; l’Imperatore, invece, indirizza il genere umano alla beatitudine terrena «per phylosophica documenta». Unica norma del principe terreno, nel governare i popoli, sono dunque i documenta phylosofica, ovvero la ragione. Col rivendicare l’autonomia dell’Impero di fronte alla Chiesa, coll’assegnare allo Stato un suo proprio fine naturale da raggiungere nella vita terrena, e con lo stabilire, infine, che la norma da seguirsi, per ottenere tale fine, sono i documenta phylosophica, contrapposti ai documenta rivelata o spiritualia, Dante non solo tenta di razionalizzare (e, in parte, de-teologizzare) la tradizione politica medievale, ma ne mette realmente in crisi la cultura: la Monarchia è, volendo mutuare una definizione di Nardi, il primo atto di ribellione alla trascendenza scolastica.54
3. Dubbi insoluti nell’antropologia politica dell’Alighieri
Questi, dunque, in sintesi gli aspetti salienti del pensiero politico del Fiorentino: una concezione che, come sottolineato anche dal sottoscritto, in alcuni aspetti appare sicuramente innovativa, ma che nel complesso, ripeto, reputo ancora, fondamentalmente, utopistica, scarsamente costruita su basi empiriche, sebbene a favore delle sue tesi il Poeta si sforzi di proporre prove e testimonianze storiche. A mio avviso, l’Alighieri, come già altri pensatori politici prima di lui,55 è caduto in quella che, in più occasioni, ho definito la eccessiva enfatizzazione del trascendente; vale a dire che: anch’egli, in ambito politico, non è riuscito a restare con i piedi ben saldi a terra, a muoversi nell’ambito del naturale divenire del mondo. E non mi riferisco solo al suo progetto di Monarchia Universale, ma anche alla sua principale intuizione: a quel fine naturale dell’uomo, la piena attuazione dell’intelletto possibile, che egli pone quasi come fondamento ontologico alla realizzazione di quella che, per lui, è la migliore comunità politica.
Dante, come visto, intende lo Stato, ovvero la Monarchia Universale, quale condizione necessaria per la piena realizzazione dell’intelletto umano, e quindi, di conseguenza, per il raggiungimento della felicità terrena. Egli, in altri termini, cerca di articolarele due caratteristiche antropologiche fondamentali della tradizione aristotelica:56 tenta di superare la sua tensione interna tra il cittadino, che dipende dagli altri ed ha bisogno della comunità umana per realizzare il proprio essere, e il saggio che basta a se stesso, perché, come sostiene lo stesso Aristotele, può giungere alla perfezione della teoria senza l’aiuto dei suoi simili. Dante pensa di poter risolvere questa tensionespingendo più avanti la riflessione di Aristotele sulle condizioni di un’esistenza teoretica, ovvero sul conseguimento delle felicità per mezzo della conoscenza, concependo tale esistenza come una possibilità offerta a tutti gli uomini. L’unità tra il bios theoretikòs e il bios politikòs da lui postulata si fonda sulla convinzione che la conoscenza riguardi tutti gli uomini. Non è, come in Aristotele, il filosofo isolato e semi-divino che realizza l’ideale di una conoscenza totale e perfetta, ma è la comunità umana tutta intera (l’humana civilitas), grazie alla migliore delle organizzazioni politiche, la Monarchia Universale, la quale ne garantisce la stabilità e la pace, condizioni fondamentali per la piena attuazione dell’intelletto possibile.
Ma è proprio qui che emerge il limite della sua dottrina politica: è come se l’Alighieri interpretasse in maniera del tutto personale e arbitraria la celebre frase d’esordio della Metafisica di Aristotele: «Tutti gli uomini tendono per natura al sapere». Egli, cioè, sembra intendere quel tendono come se fosse un vogliono; ma i due termini non hanno lo stesso senso: non tutti gli uomini, in ogni tempo e luogo, hanno voluto o vogliono realizzare a pieno la propria capacità intellettiva, anzi, l’esperienza e la Storia ci dicono che la gran parte tende ad indirizzare le proprie energie verso l’attuazione di altri tipi di tendenze.57 Dante intende, o meglio, dà per scontato che la conoscenza possa essere un nutrimento destinato e soprattutto voluto dalla totalità degli uomini; e non intende escludere nessuno da un tale banchetto. Ma la domanda fondamentale, e che a mio avviso fa emergere i limiti del suo progettopolitico, è proprio questa: veramente tutti gli uomini desideranosedersi a quel banchetto? E non mi riferisco solo ai cittadini comuni, ma anche a coloro che, all’interno di questa determinata organizzazione politica (la Monarchia Universale), dovrebbero guidare tutta la comunità umana verso una vita di conoscenza, ovvero: la classe politica (i re, gli amministratori, ecc.), e in primis quel Monarca universale, l’imperatore, che, proprio perché primo governante, dovrebbe essere di esempio per tuttinell’attuazione di tale fine naturale.
Dante, e qui passiamo a quello che è l’altro aspetto poco convincente delle sua dottrina politica, sembra non tenere conto della Storia, che pure chiama a testimonianza delle sue tesi politiche, perché se lo facesse, si renderebbe conto che proprio la Storia offre moltissimi esempi di imperatori (ed in generale di uomini di Stato) poco, o per nulla, propensi ad intraprendere per se e per gli altri il cammino verso un tale virtuosa esistenza (una vita dedita alla conoscenza). Mi sembra di poter riscontrare qui lo stesso procedimento di idealizzazione di fatti della storia, in quel caso romana,presente già in Cicerone:58 in quel frangente è impiegato per esaltare la figura e l’importanza degli optimates nel destino di Roma; nel caso di Dante, come visto, per sottolineare il ruolo principale (e provvidenziale) dell’imperatore nella realizzazione del fine naturale degli uomini. Ma il poeta fiorentino non si limita ad Augusto e ad altre figure di spicco dell’antico Impero Romano: lo stesso Arrigo VII è da lui assolutamente idealizzato. Egli ne esalta in maniera acritica il valore e le aspirazioni, presentandoli sotto una veste pacifica e umanitaria, e, allo stesso tempo, ne cela le qualità reali, soprattutto: le sue evidenti ambizioni economiche e territoriali non solo sull’Italia, ma sull’Europa intera.
A difesa della sua esaltazione della figura del Monarca Universale si potrebbe far notare, e del resto è ciò che fa anche una certa critica, che quella dantesca non è proprio una concezione idealistica della figura del monarca, e, soprattutto, che il Poeta ha tenuto conto dei rischi di una sua possibile deriva totalitaria, dispotica. Una soluzione, o meglio, una rassicurazione, a tal proposito, sul buon operato dell’imperatore sembrerebbe emergere non nelle pagine della sua principale opera politica, ma in quelle del noto quarto trattato del Convivio, nelle quali la suddetta unità tra il bios theoreitkos e il bios politikos si tradurrebbe, in terminidi gestione dello Stato (ovvero: del mantenimento del benessere terreno dell’humana civilitas), in una collaborazione costante tra imperatore e saggi consiglieri (ovvero: tra sovrano e filosofi). Infatti, nonostante si tratti di un’opera non prettamente politica, nel Convivio temi quali: l’identità sociologica e l’ideale profilo morale della persona dell’imperatore, i limiti e i doveri precisi della sua autorità, i supporti intellettuali e teorici indispensabili al corretto esercizio del suo potere, trovano ampio spazio e sviluppo.
Nel quarto trattato il tema politico prende le mosse dall’appassionata discussione intorno alla definizione di nobiltà. Dante respinge parzialmente la definizione che di essa ha dato l’imperatore Federico II di «antica ricchezza e belli costumi».59 La sua critica, in realtà, non riguarda la definizione in se, ma il ruolo, la funzione dell’Imperatore: se la sua autorità includa o meno anche quella di dare definizioni. L’Imperatore «è posto» al «officio di comandare», che «Imperio è chiamato», dice Dante; ciò che egli dice «a tutti è legge, e per tutti dee essere obedito e ogni altro comandamento da quello di costui prender vigore e autoritade».60 Ma «la imperiale autoritade», che per guidare «a perfezione de l’umana vita» «è regolatrice e rettrice di tutte le nostre operazioni, giustamente», «quanto le nostre operazioni si stendono tanto...ha giurisdizione, e fuori di quelli termini non sciampia».61 Più precisamente: non sulle «nostre operazioni che subiacciono a la ragione», ma su quelle che dipendono da «la volontade»,62 sulle «volontarie operazioni», nelle quali «sia equitade alcuna da conservare e iniquitade da fuggire», per cui «trovata fu la Ragione scritta»,63 cioè il diritto. «A questa – conclude Dante – scrivere, mostrare e comandare, è questoofficiale posto di cui si parla, cioè lo Imperatore, al quale tanto quanto le nostre operazioni proprie, che dette sono, si stendono, siamo subietti, epiùoltre no».64 L’Alighieri mostra, dunque, che non spetta all’imperatore, «non è dell’arte imperiale», definire che cosa sia nobiltà. Essa è una grazia, un abito speciale, che Dio infonde nell’anima a chi «vede stare perfettamente ne la sua persona, acconcio e disposto a questo divino atto ricevere»;65 ed è «seme di felicità», nel senso che da «nobiltà» si generano «come effetto da sua cagione»,66 le «morali vertù e intellettuali», che, correttamente praticate, conducono alla felicità terrena e celeste. La nobiltà, infatti, si esplica e si invera solo attraverso la pratica individuale della virtù; pratica alla quale presiede67 non l’autorità imperiale, ma quella filosofica, capace di dimostrare e considerare il fine «de l’umana vita al quale l’uomo è ordinato in quanto elli è uomo».68 Tale rivendicazione di competenza all’area dell’attività speculativa e filosofica, e quindi alla funzione e al ruolo degli intellettuali, tocca, anche, la stessa «autoritade», ossia l’«officio di comandare» che è proprio dell’imperatore: essa, come sostiene lo stesso Alighieri, «non repugna a l’imperiale autoritade»;69 anzi «quella senza questa è pericolosa», perché priva di sufficienti principi teorici razionali, «e questa senza quella è quasi debile», perché priva di forza e di strumenti operativi. Perciò, conclude il Poeta, «congiungasi la filosofica autoritade con la imperiale, a bene e perfettamente reggere».70
Da questo breve excursus attraverso il Convivio, dunque, si potrebbe far scaturire l’efficacia della sua proposta politica, ovvero: che la Monarchia Universale sarebbe immune da degenerazioni, perché fondata, appunto, sul connubio filosofia/autorità, saggezza/potere. Nell’indicare la funzione propria e necessaria dell’Impero, quella cioè di presiedere alle azioni degli uomini soggette alla volontà, e quindi di formulare, promulgare e far rispettare le leggi, l’Alighieri sottolineerebbe i limiti di competenza e, ovviamente, di potere,dell’autorità imperiale. Più precisamente, Dante sembrerebbe proporre che a quest’ultima si affiancasse, nella gestione dello Stato, anche un’autorità filosofica, cui spetterebbe dare indicazioni sulle verità razionali, formulare giudizi, leggi logiche e scientifiche attinenti all’attività intellettiva dell’uomo: che accanto all’imperatore, «posto all’officio di comandare», ci fosse la presenza illuminata di intellettuali in funzione di consiglieri, affinché non si incorra in forme difettose di governo, come quelle di tanti «regi, principi e tiranni».71
Ma nonostante questa clausola di garanzia, i limiti della sua dottrina politica, ossia la poca attinenza alla realtà storica e il suo carattere essenzialmente utopistico, restano. Al di là della contraddizione evidente che tale distinzione tra autorità politica e autorità filosofica fa emerge all’interno del pensiero politico del Fiorentino, in quanto sminuisce e ridimensiona di molto il valore non solo politico, ma soprattutto intellettuale, del Monarca Universale quale unica autorità in grado di condurre gli uomini alla felicità terrena,72 minando di fatto alla base tutta la sua costruzione politica,73 anche — dicevo — sforzandomi di considerare parzialmente coerente questa variante del Convivio con quanto da lui sostenuto nella Monarchia, i miei dubbi iniziali, relativi alla scarsa concretezza e fattibilità del progetto dantesco, permangonoancora. Infatti, sebbene l’Alighieri sembra prendere in considerazione la questione relativa al giudizio che l’intera comunità politica potrebbe emettere nei confronti di coloro (imperatore e saggi) che eserciterebbero tali ruoli e funzioni: vale a dire la possibilità di poterli valutare in base ai loro meriti o demeriti, e quindi scegliere se continuare a seguirli oppure scacciarli, resta il fatto che egli non affronta mai, nel concreto, la questione relativa al come tale possibilità possa esplicarsi; in che modo questa libertàdei cittadini trovi concretamente espressione. In altri termini, il problema dell’eleggibilità e del consenso non trovano uno spazioevidente e centrale nella teoria politica dantesca. Lo ripeto, l’ipotesi di Stato avanzata dall’Alighieri, nelle sue istanze essenziali, è utopistica: la sua risposta ai bisogni crescenti del suo tempo, come la pace sociale, la libertà e la giustizia, proprio perché fondata su una sorta di presupposto, si potrebbe dire, chimerico, trascendentale (qual’è, appunto: la piena attuazione dell’intelletto possibile) nasce già monca, per nulla convincente.
Da questo punto di vista, e qui concludo, la tesi fondamentale che regge il discorso politico di un autore di poco successivo al Fiorentino, ovvero Marsilio da Padova, secondo il quale: le leggi e i governi, qualsiasi forma essi abbiano, dipendono dalla sovranità e dal consenso dei cittadini, appare sicuramente più concreta e realistica. Il Padovano, infatti, colse l’incipit di una comunità politica nella soddisfazione dei bisogni naturali dell’uomo, e non, come Dante, in un fantomatico fine intellettualistico. Egli comprese, ed è questa la sua grande novità, che il miglioramento delle condizioni di vita di ciascuno individuo/cittadino sta nel modo in cui tutte le sue necessità vengono attuate. E poiché nessun uomo, da solo, può soddisfare i suoi bisogni, tale realizzazione può essere garantita soltanto dalla totale collaborazione reciprocadi più individui uniti in una communitas. Uno Stato, per Marsilio, è talesolo se gli individui che lo compongonopartecipano tutti assieme, ciascuno secondo le proprie competenze e possibilità, al suo costante progresso.
1 Sulla mia posizione in proposito, si veda anche il mio libro Dall’Ἀγαϑόν alla vita sufficiens (Declino e rinascita del dialogo politico) (Roma: Aracne Editrice, 2017), Parte II, cap. 3. 2.
2 Soprattutto quella relativa al II libro della Monarchia.
3 Dante, Convivio, a cura di P. Cudini (Milano: Garzanti, 1995), IV, IV, 1.
4 Dante, Convivio, IV, IV, 2-4.
5 Ivi.
6 Dante, Convivio, IV, XVI, 7.
7 Dante, Convivio, IV, XVII.
8 Ovvero intelletto attivo.
9 E per questo è detto anche intelletto passivo o potenziale.
10 Tommaso d’Aquino, Somma Teologica, traduzione e commento a cura dei Domenicani Italiani (Sancasciano: Salani, 1966), Ia, q. 79, a. 2.
11 Ivi.
12 Tommaso d’Aquino, Somma Teologica, Ia IIae, q. 3, a. 7 ad. 3.
13 Tommaso d’Aquino, Somma Teologica, Ia IIae, q. 3, a. 8.
14 Aristotele, Metafisica, a cura G. Reale (Milano: Bompiani, 2000), libro I, 980 a.
15 Tommaso d’Aquino, De regimine principum, a cura di A. Meozzi (Lanciano: Carabba, 1930), libro I, cap. 14.
16 Tommaso d’Aquino, De regimine principum, libro I, cap. 15.
17 Tommaso d’Aquino, De regimine principum, libro I, cap. 14.
18 Dante Alighieri, Purgatorio, a cura di E. Pasquini e A. Quaglio (Milano: Garzanti, 2007), XXV 61-78.
19 Dante Alighieri, Convivio, IV, XXI.
20 Risultanti dalla complessione del seme paterno, dalla disposizione del seminante e dalle influenze celesti.
21 Dante Alighieri, Convivio, IV, XXI, 7.
22 Aristotele, De anima, a cura di G. Movia (Milano: Bompiani, 1983), libro III, cap. 5, 430 a 14-15.
23 Nel corso dell’articolo, come già anticipato, sarà esposto come, secondo il Fiorentino, ciò si realizza a partire da presupposti politici (nel suo caso dalla realizzazione della Monarchia Universale). Mi riprometto, tuttavia, di affrontare, in un futuro lavoro, la questione da un punto di vista più prettamente filosofico, ovvero: approfondendo la questione dell’attualizzazione dell’intelletto in Aristotele, Averroè, Tommaso e Dante.
24 Dante Alighieri, Monarchia, a cura di F. Sanguineti (Milano: Garzanti, 2006), I, I, 4.
25 Dante Alighieri, Monarchia, I, II, 3.
26 Dante Alighieri, Monarchia, I, II, 4.
27 Dante Alighieri, Monarchia, I, II, 7.
28 Dante Alighieri, Monarchia, I, II, 8.
29 Dante Alighieri, Monarchia, I, III, 2.
30 Dante Alighieri, Monarchia, I, III, 3.
31 Dante Alighieri, Monarchia, I, III, 6.
32 Dante Alighieri, Monarchia, I, III, 7.
33 Dante Alighieri, Monarchia, I, III, 4.
34 Dante Alighieri, Monarchia, I, III, 8.
35 Dante Alighieri, Monarchia, I, III, 7.
36 Dante Alighieri, Monarchia, I, III, 1.
37 Dante Alighieri, Monarchia, I, IV, 5.
38 Dante Alighieri, Monarchia, I, XI, 1.
39 Dante Alighieri, Monarchia, I, XII, 5.
40 Dante Alighieri, Monarchia, I, XI, 12.
41 Dante Alighieri, Monarchia, I, XIV, 5.
42 Dante Alighieri, Monarchia, I, XIV, 9.
43 Dante Alighieri, Monarchia, II, I, 3.
44 Dante Alighieri, Monarchia, II, I, 6.
45 Dante Alighieri, Monarchia, II, III, 17.
46 Dante Alighieri, Monarchia, II, V, 4.
47 Dante Alighieri, Monarchia, II, II, 5.
48 Dante Alighieri, Monarchia, III, XV, 5-7.
49 Ivi.
50 Penso ad esempio agli studi danteschi di Giovanni Busnelli.
51 Tommaso d’Aquino, Somma Teologica, Ia IIae, q. 3, a. II; q. 5, a. V; q. 63, a. I.
52 Dante Alighieri, Monarchia, III, XV, 8.
53 Dante Alighieri, Convivio, IV, VI, 6 ss.
54 Bruno Nardi, “Il concetto dell’Impero”, en Saggi di filosofia dantesca (Firenze: La Nuova Italia, 1967), 256.
55 Medievali, ma anche dell’Antichità e della Tarda-antichità.
56 Ruedi Imbach, “La dimensione politica dell’intelletto umano in Dante”, en Dante, la filosofia e i laici, a cura di P. Porro (Genova: Marietti, 2003), 166.
57 Al di là del loro valore morale.
58 A. Sparano, Dall’Ἀγαϑόν alla vita sufficiens (Declino e rinascita del dialogo politico), parte I, cap. 4. 1.
59 Dante Alighieri, Convivio, IV, III, 7.
60 Dante Alighieri, Convivio, IV, IV, 7.
61 Dante Alighieri, Convivio, IV, IX, 1.
62 Dante Alighieri, Convivio, IV, IX, 4.
63 Dante Alighieri, Convivio, IV, IX, 8.
64 Dante Alighieri, Convivio, IV, IX, 9.
65 Dante Alighieri, Convivio, IV, XX, 7.
66 Dante Alighieri, Convivio, IV, XVIII, 2.
67 Nel senso di essere insegnata.
68 Dante Alighieri, Convivio, IV, VI, 7.
69 In quanto anch’egli vuole (e deve) essere virtuoso, e quindi nobile, in quanto «è nobilitade dovunque è vertude» (Convivio, IV, XIX, 5).
70 Dante Alighieri, Convivio, IV, VI, 17-18.
71 Vincenzo Russo, Impero e Stato di Diritto, studio su “Monarchia” ed “Epistole” politiche di Dante (Napoli: Bibliopolis, 1987), 41.
72 E. H. Kantorowicz, I due corpi del Re (Torino: Einaudi editore, 2012).
73 Non è un caso, infatti, come sottolineato anche da Kantorowics, che Dante ometta di inserire questa distinzione nella Monarchia.